domenica 26 Febbraio 2023
È una specie di déjà vu: in Canada, dove è in discussione una legge per ottenere che i giornali siano compensati dalle grandi piattaforme digitali, modellata su quella approvata a suo tempo in Australia, le piattaforme stanno mettendo in pratica esperimenti di ritorsioni o ricatti (tutti legittimi). Questa volta è Google che ha voluto mostrare alle aziende giornalistiche di avere ancora il coltello dalla parte del manico, almeno una parte del manico: e ha rimosso “sperimentalmente” una gran quota di siti di news dai suoi motori di ricerca e dai suoi servizi di aggregazione di news.
La contesa è quella che sta occupando pensieri e confronti in tutto il mondo da alcuni anni. Google e Facebook (in forme diverse) ottengono traffico e contenuti a partire da “snippets” – ovvero brevi anteprime – di articoli dei giornali online. I giornali chiedono di essere per questo compensati con una condivisione dei ricavi conseguenti. La richiesta ha molte fragilità per come viene formulata: una è che non si capisce perché debbano essere solo i giornali a essere compensati e non qualunque sito i cui contenuti siano aggregati su Google o promossi nelle timeline di Facebook; un’altra è che i giornali vengono già compensati attraverso il traffico che le piattaforme portano loro, e che se le piattaforme decidessero di dire loro “ok, noi possiamo farne a meno, di voi” (come sta provando a minacciare Google in Canada) per i giornali sarebbe un guaio e per le piattaforme assai poco.
Ma è vero che quando qualcuno guadagna molto e qualcun altro è in difficoltà una redistribuzione sarebbe corretta ed equa, soprattutto se quel qualcun altro svolge un prezioso lavoro di servizio pubblico (ora ci arriviamo).
Questa sproporzione di rapporti di forza è stata però ridimensionata negli ultimi due anni dal peso maggiore che le grandi aziende giornalistiche mantengono ancora in un ambito rilevante: quello della politica e delle sue istituzioni. Che in diversi paesi del mondo hanno accolto le pressioni e il lobbying delle aziende giornalistiche e hanno minacciato le piattaforme di interventi legislativi che le costringano a pagare i giornali. In alcuni casi gli interventi ci sono stati (l’Australia per prima), in altri le minacce sono bastate a suggerire alle piattaforme di proporre degli accordi.
Il fatto è che queste leggi o queste minacce hanno avuto come beneficiarie soprattutto le grandi aziende giornalistiche con maggiore potere di pressione, e non necessariamente hanno prodotto maggiore pluralismo, maggiore innovazione, maggiore qualità. E quindi anche dove si è ottenuta questa redistribuzione, non si tratta sempre di una vera redistribuzione a beneficio del servizio pubblico ma piuttosto di una maggiore spartizione tra grandi aziende.
In questo scenario, si è alzato adesso di nuovo il livello dello scontro in Canada.
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