domenica 20 Marzo 2022
Ci sono stati attacchi e polemiche intorno a un editoriale del New York Times , questa settimana: e parliamo esattamente di “un editoriale” (la definizione è spesso equivocata, da noi), ovvero di un testo firmato dal ” consiglio editoriale ” del New York Times , l’organismo di giornalisti ed esperti che è dedicato esattamente a questo tipo di articoli che “danno la linea” del giornale. L’editoriale era dedicato a quel groviglio di questioni che vanno dalla libertà d’espressione, alla “cancel culture” cosiddetta, all’aggressività sui social network, e insomma all’inestricabile confusione di libertà ed eccessi, di opportunità e limiti, creata dagli infiniti spazi di espressione online. Groviglio e confusione ormai irrisolvibili, e in cui il New York Times ha voluto stavolta attaccare il ricatto di persecuzioni più o meno censorie ed aggressive di cui può essere vittima l’espressione di un’opinione. La sostanza della polemica con chi ha contestato l’editoriale è: possono convivere i diritti di dire la propria da parte di chi ha un’opinione e quelli di chi contesta quell’opinione? E i modi e contenuti di quelle opinioni devono avere dei limiti e dei tabù? Il paradosso del benintenzionato editoriale è che finisce per predicare una “cancel culture” della “cancel culture”, ovvero una limitazione della libertà di limitare le opinioni altrui: e questo fa capire come siamo arrivati a una contraddizione poco risolvibile (“distinguere tra critica e repressione “, non suona facile), in cui si dovrebbe attribuire libertà di “cancellazione” per tutto, o per niente.
(il direttore del Post era intervenuto intorno al tema, qualche anno fa)
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