domenica 13 Febbraio 2022
La questione della scarsa trasparenza di molti giornali rispetto a quali dei propri articoli siano una scelta della redazione e quali siano incentivati da ragioni di ricavo pubblicitario o di interesse di altro genere per il giornale è spesso trattata su Charlie: è piuttosto decisiva, capirete, nel conservare la fiducia dei lettori necessaria – non bastassero le ragioni etiche – a ottenerne i ricavi indispensabili a sostenere i giornali stessi. Il compromesso creato in questi anni per mantenere parte dei ricavi pubblicitari senza ingannare i lettori è quello dei formati – soprattutto digitali – che sono stati chiamati di “native advertising”, “branded content”, “articoli sponsorizzati” o con altri nomi: ovvero articoli e contenuti giornalistici indicati con chiarezza nella loro natura pagata dall’esterno.
Il problema, che è stato notato già da tempo, è che pure le più vistose e benintenzionate indicazioni di questo genere spesso non sono sufficienti a far percepire a gran parte dei lettori la natura degli articoli. La conseguenza non è soltanto che quindi si mantiene il problema che chi legge attribuisce all’autorevole autonomia del giornale l’articolo che legge e la scelta di pubblicarlo, ma anche un’altra, come ha raccontato un articolo di pochi giorni fa sul sito The conversation: ovvero che laddove i lettori percepiscono la bassa qualità o il tono promozionale dei suddetti articoli, li attribuiscono al giornale stesso, e alla sua redazione, e questo contribuisce alla loro perdita di fiducia nella sua stessa qualità e autorevolezza. Ragione di più per distinguere chiaramente i contenuti promozionali da quelli giornalistici indipendenti, e per farlo con tripla evidenza.
Fine di questo prologo.
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