domenica 2 Marzo 2025
È un argomento delicato e la cui delicatezza è stata molto affrontata e discussa negli ultimi anni, con progressi di sensibilità e attenzioni. Esperti di salute mentale, psicologi, medici, hanno posto da tempo la questione che le notizie che coinvolgono suicidi possano generare dei rischi per le fragilità e le difficoltà eventuali di alcuni dei loro lettori e lettrici, soprattutto quelli di emulazione. Il Post aveva descritto il dibattito in questo articolo, ma molte altre trattazioni si trovano online e in molte redazioni le cautele e le consapevolezze sono aumentate.
Dal punto di vista giornalistico resta però che non sia possibile definire e applicare regole universali e immediate da seguire automaticamente in ogni caso. È un’altra delle tante occasioni in cui il ruolo dell’informazione deve conoscere dei limiti e dei compromessi con altre priorità, come avviene con la privacy, con la presunzione di innocenza, con la sicurezza pubblica, col rispetto del dolore, col diritto all’oblio, per fare alcuni esempi. E nel caso di notizie di suicidio sono ogni volta quindi da bilanciare la rilevanza della notizia, la rilevanza delle circostanze della morte di cui si parla, la notorietà delle persone coinvolte, e molti fattori di interesse giornalistico.
Questa settimana i quotidiani italiani hanno dato una notizia sulla morte del giovane figlio di un politico calabrese, scegliendo di alludere con sempre maggiore chiarezza (soprattutto dopo che lo aveva fatto lo stesso padre) alla sua depressione e al suicidio, ma senza mai menzionare la parola “suicidio”.
(Alcuni siti di news hanno però inserito la parola tra i “tag” dell’articolo, con scelta avventata, dal momento che i tag aiutano a far comparire le pagine relative tra i risultati di eventuali ricerche su Google).
Charlie ha parlato con alcune persone che si sono occupate di questi argomenti per raccogliere le loro impressioni.
Alberto Infelise, giornalista della Stampa, aveva riflettuto a suo tempo sugli approcci da adottare: «La scelta di non usare la parola “suicidio” è stata probabilmente causata dal completo ribaltamento del vecchio modo di parlare di suicidio sui giornali: fino a 15 anni fa, trattavamo i suicidi come qualsiasi altro evento di cronaca, facendo foto e spiegando tutto nei minimi dettagli. Credo che [non aver usato il termine sucidio] sia una forma di pietà nei confronti di chi si toglie la vita, perché è una parola che, soprattutto se usata nei titoli, esaspera e drammatizza la notizia. Forse è anche frutto di un eccesso di tutela, ma preferisco questo eccesso: tutti dovrebbero essere informati, ma è più importante che ci sia il rispetto della vita umana e questo caso, in particolare, è stato gestito bene».
Chiara Davico, psichiatra del progetto Papageno: «Mi sorprende che siamo passati all’estremo opposto, soprattutto dato il fatto che fino a poco tempo fa i casi di suicidio raccontati dai giornali in Italia raramente seguivano le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Credo che in questo caso la notizia sia stata gestita bene, ma non va bene nemmeno non usare il termine “suicidio”, che è una parola ancora molto stigmatizzata ma di cui non bisogna avere alcuna paura: usarla vorrebbe dire riconoscere che il problema è serio e va affrontato».
Paolo Piacenza, coordinatore delle attività redazionali del Master in Giornalismo dell’Università di Torino: «In questo caso ho notato una tendenza a fare più attenzione, che in altri casi non si è vista. Non è necessariamente negativo che non sia stata usata la parola “suicidio”, perché è ancora una parola potente. A volte la prudenza nell’usare questa parola può sembrare troppa, ma a me pare che in questo caso, magari per una forma di rispetto, siano state fatte scelte che vanno nella giusta direzione, anche se in modo un po’ casuale. Per esempio, va bene evitare di lanciare il termine suicidio nel titolo, ma usarlo nei tag nega quella prudenza per la ricerca di un click.
In casi come questi, poi, dove la rilevanza mediatica delle persone coinvolte è alta, può sembrare più facile fare questa scelta, ma il rischio di tutelare poco i diretti interessati è lo stesso. Sebbene oggi i giornali non siano più l’unica fonte d’informazione delle persone, mantengono la responsabilità di tutelare la dignità degli individui in situazioni sensibili come questa, anche a fronte del comportamento generalmente poco responsabile che prevale sui social».
Pasquale Quaranta, giornalista del gruppo GEDI e primo diversity editor d’Italia: «Giusto evitare di inserire la parola “suicidio”, soprattutto nel titolo. Questa cautela nell’uso del termine dimostra la volontà di cercare modi alternativi per informare senza alimentare discriminazioni o stigmatizzazioni. È un segnale positivo, che evidenzia come nei giornali si stia iniziando a riflettere su questo problema con maggiore responsabilità. Certo, le cose vanno chiamate con il loro nome, ma esistono molti modi per farlo. E se scegliere parole diverse può aiutare a prevenire l’effetto emulativo e, di conseguenza, a salvare vite, allora vale certamente la pena farlo»
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