domenica 27 Ottobre 2024
Negli ultimi due giorni è successo un grosso guaio al Washington Post – uno dei tre più autorevoli quotidiani statunitensi -, proprio mentre sembrava che l’azienda provasse a uscire dal guaio precedente in cui si era messa. Breve riassunto: una crisi di abbonati e ricavi – dopo entusiasmi e illusioni negli anni intorno alla pandemia – aveva portato il proprietario Jeff Bezos (quello di Amazon) a un ricambio della dirigenza, con la nomina di un esperto CEO di ricco curriculum, Will Lewis, che però era entrato con eccessiva prepotenza nelle prospettive della redazione, spingendo la direttrice alle dimissioni e la redazione stessa a una vivace contestazione. Bezos e Lewis avevano cambiato tono, e avevano lasciato che la cosa sbollisse per qualche mese, prima di annunciare con maggiore diplomazia nuovi piani nelle scorse settimane.
E poi è successo il guaio. Venerdì il Washington Post ha annunciato con un articolo di Lewis la sua inattesa decisione di non pubblicare nessun endorsement per le elezioni presidenziali, per la prima volta dal 1988, pur avendo finora sostenuto apertamente Kamala Harris ed essendo da anni la più critica verso Donald Trump tra le testate più importanti. E rapidamente si è saputo che la decisione era stata presa da Lewis con l’articolo di endorsement già scritto e pronto da parte della redazione che si occupa degli editoriali. E altrettanto rapidamente sono circolate versioni che attribuivano la decisione a Bezos, o quanto meno implicavano il suo consenso, e ricostruzioni piuttosto realistiche sui timori di Bezos per le sue molte attività legate alle istituzioni e al governo nel caso Trump vincesse le elezioni e mettesse in pratica gli interventi che va minacciando da mesi contro i giornali che lo hanno attaccato. Lewis ha negato che Bezos avesse letto l’endorsement preparato.
La decisione ha generato indignazioni e scelte drastiche nella redazione: si è dimesso un importante autore del giornale, Robert Kagan. Diciotto autori della sezione delle opinioni hanno firmato un articolo che parla di un “terribile errore”. I due famosi giornalisti autori delle inchieste sul caso Watergate – Bob Woodward e Carl Bernstein – hanno diffuso un testo in cui definiscono la scelta di non pubblicare un endorsement contro Trump “sorprendente e deludente”. Marty Baron, ammirato ex direttore del giornale, ha parlato di “codardia”. L’altrettanto stimato direttore del New Yorker, David Remnick, l’ha chiamato un “triste presagio”. Il sito Semafor ha riportato – con qualche dubbio – l’informazione secondo cui subito dopo la decisione almeno duemila abbonati al Washington Post avrebbero disdetto l’abbonamento.
In molti hanno commentato come la censura sull’endorsement già pronto contraddica il motto che lo stesso Washington Post aveva introdotto sotto la testata dopo la vittoria di Trump del 2016: “La democrazia muore nelle tenebre”.
Tutto questo nel contesto di un guaio simile appena capitato al grande quotidiano californiano Los Angeles Times (vedi sotto) e alla vigilia invece di una scelta meno pavida da parte dello storico rivale New York Times, che aveva scelto di sostenere Harris un mese fa e che sabato lo ha ricordato ai lettori, pubblicando in più una specie di ulteriore endorsement molto forte – e molto creativo nella sua versione digitale – contro Donald Trump.
“Se vogliamo farci un’idea di come Trump limiterà la libera stampa se eletto presidente, possiamo vederlo da quello che già succede ancora prima che lo diventi”, ha commentato Kagan.
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