domenica 3 Novembre 2024
Su quello che è successo al Washington Post stanno scrivendo tantissimi, negli Stati Uniti, con grande varietà di riflessioni. Quella più acuta e interessante forse si deve ancora a Ben Smith, direttore del sito Semafor. Ed è che la perdita di abbonati del giornale dimostra soprattutto che c’è una grande quota di lettori che dal proprio giornale vuole vedere confermate le proprie opinioni e sventolata la bandiera della propria appartenenza e partigianeria, più ancora che un buon prodotto di informazione (di certo i 250mila che hanno cancellato l’abbonamento non sarebbero stati trattenuti dalla pubblicazione di un endorsement a favore di Donald Trump). E una grande quota di lettori paga per avere questo e smette di pagare se non riceve questo: il mancato endorsement di Kamala Harris sul Washington Post è probabilmente un millesimo di quello che il giornale pubblica in una settimana, e il resto dei suoi contenuti continua a essere lo stesso, apprezzato, vincitore di premi, citato come il prodotto di una delle più autorevoli testate americane: e ancora fortemente antitrumpiano, tra l’altro. Ma 250mila abbonati hanno detto di non essere disposti a pagare per tutta questa offerta, se il giornale non scrive una volta di più da che parte sta. Dalla loro.
E questa relazione è stata molto incentivata dal Washington Post (che intorno all’opposizione a Trump ha costruito una campagna di marketing), ma anche da molte altre testate internazionali, qualunque “parte” abbiano deciso di rappresentare: è illuminante che in questi giorni molte di queste siano corse a pubblicare o rivendicare i loro endorsement, per comunicare ai lettori di essere diverse dal Washington Post, e a raccogliere i frutti di questa comunicazione.
E tutto questo conferma come l’indipendenza giornalistica dei giornali non sia messa in pericolo solo dagli interessi degli editori e da quelli della pubblicità, ma anche da quelli dei lettori. Tutti e tre – lo avevamo messo in ordine un anno fa – hanno spesso altre motivazioni che non sono quelle della buona informazione.
“I giornali in cerca di fonti di ricavo sono meno autonomi rispetto alla soddisfazione e al consenso dei propri lettori paganti (o destinatari di pubblicità), e questo condiziona il lavoro giornalistico: dire ai propri “clienti” quello che vogliono sentirsi dire, non scontentarli e non contrariarli (in tempi in cui c’è una grandissima inclinazione di tutti a scontentarsi e contrariarsi) è una necessità ineludibile per non perdere il loro contributo economico e il loro valore anche in termini pubblicitari”.
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