domenica 22 Settembre 2024
Due sabati fa, all’interno di un articolo del Corriere della Sera sulla riapertura di un’indagine per un omicidio di trent’anni fa, si diceva a un certo punto che due testimoni erano stati interrogati “ma le loro risposte sono sottoposte al segreto istruttorio rigoroso”. L’aggettivo “rigoroso” era illuminante: sembrava descrivere infatti l’esistenza di due diversi concetti giuridici, quello del “segreto istruttorio” che viene abitualmente divulgato presso i media e poi dai media stessi, e quello di un inusuale “segreto istruttorio rigoroso”, ovvero rispettato (il passaggio tradiva una evidente meraviglia del cronista per questa seconda bizzarra fattispecie).
Al di là della formulazione (specularmente alla mancata informazione in questione, l’articolo iniziava riferendo il contenuto di un’intercettazione ambientale e descrivendo gli intercettati “con le tute da lavoro chiazzate dal grasso”: informazione strabiliantemente individuata nell’intercettazione), la vera involontaria lezione che offriva quella informazione assente sul contenuto degli interrogatori era che per il felice funzionamento delle comunità, per la libertà di informazione, per la democrazia, per il bene del pubblico e per il bene dell’inchiesta, quell’assenza era evidentemente insignificante. Un articolo di cronaca è stato costretto a omettere un pezzo dell’inchiesta, per obbedienza alle regole, e niente e nessuno ne ha sofferto. A dimostrazione “plastica” che le limitazioni alla diffusione di documenti investigativi e giudiziari non solo hanno spesso dalla loro buone ragioni di correttezza e rispetto, ma non hanno ragioni contro.
La dimostrazione è stata ripetuta lunedì, e anche efficacemente descritta, nell’ammirevole comunicato con cui la procura di Parma ha spiegato le proprie attenzioni a tenere a lungo riservata una diversa indagine che è stata molto seguita dai giornali nei giorni scorsi. Consigliamo di leggerlo tutto, per la chiarezza e l’ovvietà delle argomentazioni (la chiarezza viene un po’ meno nel linguaggio, a tratti).
“Pur consapevole della aspettativa della popolazione (non solo quella locale) ad essere informata su ciò che è avvenuto, la Procura di Parma ha scelto la linea della massima riservatezza, fondata su due pilastri: la necessità di preservare il segreto di indagine e la necessità di garantire la presunzione di innocenza”.
E anche in questo caso, la riservatezza e la scelta di aderire alle regole negando informazioni ai mezzi di comunicazione non si è risolta in nessuna controindicazione, nessun danno per nessuno, se non per curiosità umane legittime ma imparagonabili ai “pilastri” del diritto citati dalla stessa procura. Il desiderio personale e sterile dei singoli contro il bene comune.
L’uso della parola “bavaglio” è stata una efficace operazione di marketing dei propri interessi – nel solco del vittimismo che occupa da tempo ogni propaganda – da parte di una quota di giornali e di interessi politici, anche se ormai consunta dall’uso ripetuto. Ma proprio il suo grande uso rivela che nella sostanza quello a cui si oppongono i suoi promotori è l’altrimenti inattaccabile rispetto delle regole a tutela di tutti e il più corretto ed efficace funzionamento della “giustizia” nei luoghi dove deve funzionare.
Fine di questo prologo.
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