domenica 3 Novembre 2024
«Vorrei che avessimo fatto questo cambiamento prima, in un momento più lontano dalle elezioni e dalle emozioni che le circondano. È stata una pianificazione inadeguata, e non una qualche strategia deliberata». L’articolo di Jeff Bezos per spiegare da parte dell’editore il guaio combinato al Washington Post – di cui la settimana passata hanno parlato molto anche i media italiani – avrebbe dovuto limitarsi a queste poche righe, e forse con una scelta di termini meno autoindulgente. L’unico metro importante con cui giudicare quello che è successo è questo: tutte le accettabili e ben esposte motivazioni per rinunciare all’endorsement in favore di Kamala Harris perdono qualunque valore se quella rinuncia avviene goffamente e prepotentemente quando l’endorsement è già pronto e mancano dieci giorni alle elezioni. E quella scelta ottiene il risultato opposto a quello che Bezos sostiene sia l’intenzione, ovvero evitare di essere percepiti come partigiani e non indipendenti. Che è un’intenzione che può anche essere sostenuta, assieme alla tesi per cui gli endorsement non servono a niente, e al ricordare che la posizione del giornale su Trump resta chiarissima ogni giorno senza bisogno di un endorsement. Ed è vero che fino a oggi Bezos – come scrive – è stato percepito e raccontato come un editore che ha lasciato indipendenza al giornale. Anche per questo il disastro che ha creato questa scelta – di cui è corresponsabile se non autore – è ancora di più un fallimento che andrebbe giudicato dai risultati (ne scriviamo sotto): catastrofici. E da qui avrebbe dovuto discendere non un elenco di rivendicazioni della propria correttezza ma un’ammissione di errore meno autoassolutoria, se si fossero voluti limitare i danni. La lezione più universale che se ne può trarre è, anche in questo caso, che gli imprenditori di altri successi che comprano i giornali non sono solo un problema per le loro ingerenze, ma soprattutto per le loro incompetenze.
Fine di questo prologo.
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