domenica 12 Novembre 2023
È una storia con molti aspetti propri e unici, quella dei fotografi che sono stati guidati ad assistere alle stragi di Hamas del 7 ottobre in Israele, di cui non tutto è chiaro e noto e su cui alcune accuse si sono rivelate infondate. Ma si inserisce dentro le delicatissime e decennali – forse secolari – riflessioni sui conflitti tra le priorità del lavoro giornalistico e le valutazioni etiche più generali di correttezza e umanità. Accade più frequentemente che l’uso da parte di giornalisti di pratiche ingannevoli per ottenere informazioni sia considerato esecrabile, ma la difesa degli esecrati si basa spesso sui risultati e sulle informazioni pubbliche ottenute con quei metodi (risultati e informazioni che spesso sono apprezzati dagli stessi esecranti): ed è vero che per pretendere comportamenti sempre corretti dal giornalismo dobbiamo essere disposti a sacrificare una quota di notizie che rimarrebbero ignote. Negli Stati Uniti è tornato attuale quest’anno un dibattito sulla legittimità e sulla punibilità del giornalismo ” undercover “, ovvero quello che non si dichiara come tale, fingendosi altro, compreso quello delle telecamere e dei microfoni nascosti, per esempio. Ma cosa penseremmo se sapessimo che alcune delle immagini o dei reportage più importanti nel documentare gli eventi più violenti e drammatici dell’ultimo secolo sono stati resi possibili solo dall’astenersi dei loro autori da ogni tentativo di intervento in difesa delle vittime? Penseremmo male di loro, forse, ma preferiremmo non averne mai saputo niente? Non c’è una risposta buona per ogni caso (e per certi casi forse non c’è una risposta buona), ed è solo una delle sfuggenti questioni che riguardano una materia sfuggente come il racconto della realtà.
Fine di questo prologo.
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