domenica 26 Febbraio 2023
Leggendo alcune corrispondenze da Mosca e ancora di più ascoltando gli inviati dei telegiornali riferire le notizie sulla guerra dalla Russia si può avere l’impressione di una maggiore indulgenza nei confronti dell’invasione russa dell’Ucraina o di un eccessivo e acritico distacco nel riferire le comunicazioni e le posizioni del regime di Vladimir Putin. È un’impressione obiettivamente fondata, spessissimo queste comunicazioni e posizioni non sono accompagnate dallo scetticismo, dalle verifiche e dalle contestualizzazioni che meriterebbero. La responsabilità però è raramente dei giornalisti, quanto di una situazione di controllo e pressione per chi lavora con l’informazione in Russia, che riguarda anche corrispondenti e inviati stranieri e che si trasforma nei fatti in un ricatto. Ed è un’antica questione, quella relativa al valore giornalistico di racconti di questo genere: può riguardare regimi autoritari ma anche regolamentazioni militari imposte da paesi democratici in stato di guerra (per esempio con i giornalisti “embedded” al fronte). Ma è con i primi che il dilemma è più difficile da superare: quando l’informazione che una testata dà è sottoposta a censure tali da diventare disinformazione, ha ancora senso? Ma, per contro, ci si può arrendere? E abbandonare la comprensione delle cose sul posto, malgrado questa comprensione rischi di non arrivare a chi ascolta o legge? È un prologo coi dubbi, stavolta.
Fine di questo prologo.
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