domenica 1 Ottobre 2023
Un articolo del mensile americano Atlantic ha rinfacciato al giornalismo di quel paese di essere troppo docile nelle interviste ai politici, portando a buon esempio gli approcci britannici e in particolare un caso in cui un tentativo incalzante di intervista ha costretto l’ex primo ministro Boris Johnson a nascondersi in una cella frigorifera.
La questione è complicata, e investe antiche riflessioni sul rapporto tra intervistatori e intervistati (chiamiamo così anche i protagonisti di conversazioni usate a fini giornalistici, non necessariamente pubblicate o trasmesse come interviste): la professione giornalista è particolare nel creare una delicatissima contraddizione tra rapporto umano e rapporto professionale tra due persone, in cui si sovrappongono rapporti di civiltà e interazione personale a interessi terzi non rivelati, da parte di entrambe le parti. E in cui il risultato di quella relazione professionale, per essere considerato un buon risultato, pretenderebbe di poter “scontentare il cliente”.
C’è poi il rischio di confondere l’aggressività, o l’inganno, col buon giornalismo: libertà di giudizio e capacità di contraddizione – ciò che spesso manca anche da noi – sono una cosa diversa dalle esibizioni egocentriche o demagogiche a favore di lettori o spettatori. E restando da noi, c’è pure qualcosa di vero nel luogo comune per cui “tutti sono cognati di tutti”, e che ci sia una disabitudine risentita all’eventualità che i giornalisti scontentino qualcuno con cui hanno anche semplicemente avuto una conversazione (è emerso anche in una piccola storia recente relativa al Post). “Non si fa”, e gli uffici stampa e portavoce sono capaci di indignazioni e ritorsioni.
Ma se leggiamo le interviste sui quotidiani – per esempio -, e soprattutto quelle ai politici, non danno quasi mai l’idea che l’intervistato esca scontento dalla loro lettura: che non dev’essere un criterio di valore, ma se appunto non succede quasi mai qualcosa non funziona come dovrebbe.
Fine di questo prologo.
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