domenica 19 Maggio 2024
Martedì scorso c’è stato un piccolo incidente che ha coinvolto quasi tutti i più noti siti di news italiani: piccolo ma significativo. Il cantante Fabio Rovazzi ha creato su Instagram una “diretta” video in cui è sembrato che a un certo punto gli venisse rubato lo smartphone che stava usando. Il video è stato immediatamente ripubblicato da tantissimi siti di news (tra i maggiori: Ansa, Corriere della Sera, Repubblica, Fanpage, Stampa, Sky Tg24) e da alcuni telegiornali con titoli sul furto e in alcuni casi elaborazioni sulla criminalità nella città di Milano. Poco dopo Rovazzi ha comunicato sempre su Instagram che il furto era stato inscenato per scherzo per attirare l’attenzione sull’uscita di una sua nuova canzone: i suoi fan gli hanno detto bravo, alcuni giornalisti si sono molto irritati per il procurato allarme, ma la questione principale è un’altra.
La questione principale è che quello che è successo dimostra la facilità con cui si può fare arrivare una notizia falsa sul 90% dei mezzi di informazione, e quindi trasmetterla alla gran parte della popolazione. E questo avviene per 1) una inclinazione spasmodica delle testate ritenute più autorevoli a raccogliere qualsiasi contenuto che circoli sui social network, 2) un avvilimento della gerarchia di importanza delle notizie che promuove qualunque accidente riguardi una qualunque celebrity di qualunque scala, e 3) una rinuncia da parte delle redazioni a quel poco lavoro di verifica che esisteva nella cultura giornalistica del paese.
Il risultato è che lo “scherzo” di Rovazzi – la cui divulgazione senza verifiche ha contribuito alla trasmissione di un’idea falsata sulla pericolosità di Milano – è l’equivalente della pubblicazione della combinazione di una cassaforte: ogni malintenzionato che non lo avesse già chiaro ora sa che può contare su un accesso diretto alla popolazione italiana per trasmettere le sue falsificazioni. E che nessun giornale sorveglia quella cassaforte.
Ma magari sarà una lezione preziosa: un giorno la ricorderemo come il momento che rese il giornalismo italiano consapevole della necessità di rivedere un po’ tutto. Magari.
Fine di questo prologo.
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