domenica 22 Dicembre 2024
Una ricerca pubblicata il mese scorso sulla rivista scientifica Nature Human Behaviour ha mostrato la grande frequenza con cui le persone – noialtri, cioè – condividono degli articoli sui social network senza averli letti. Di 35 milioni di articoli condivisi su Facebook in un periodo di tre anni, il 75% non sarebbe stato aperto da chi li ha condivisi. La ricerca si concentra sulle implicazioni “politiche” di questi dati, che suggeriscono che la condivisione non avvenga per apprezzamento del contenuto dell’articolo ma soprattutto per adesione a un titolo che suona come uno slogan, una dichiarazione di identità. Più in generale, l’impressione è che questo avvenga anche con titoli e anteprime identitari in senso più largo: un titolo contro la pizza all’ananas, un titolo in difesa della trap, un titolo sulla bellezza della Liguria.
Questi dati non solo ci dicono che le persone – noialtri, cioè – devono la loro conoscenza della realtà in grande prevalenza a quello che è scritto nei titoli e nelle anteprime: quasi mai accurato, spesso equivoco e ingannevole. Ma anche che la fruizione dell’informazione non serve – per molti di noi – a una più utile o interessante conoscenza del mondo e dell’ignoto, ma a contribuire a una dichiarazione di appartenenza, di esistenza, di identità. E spiegano, i dati, perché diverse tra le maggiori testate di news hanno spostato il loro approccio verso titolazioni suggestive, partigiane, polemiche, enfatiche, piuttosto che informative: perché molti di noi chiedono di riconoscersi, più che di conoscere. Come soddisfare questa esigenza senza rinunciare del tutto a far conoscere la realtà e a proteggere l’accuratezza – rendendo “identitaria” la buona informazione – è uno dei problemi da affrontare per il giornalismo contemporaneo.
Fine di questo prologo.
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