domenica 19 Maggio 2024
C’è una storia angloamericana che giornalisticamente ha dentro molte questioni interessanti, anche viste da qui. Nel Regno Unito sta per iniziare un nuovo processo per uno degli omicidi per cui è stata accusata Lucy Letby: la storia è terribile e ha avuto grandi attenzioni da parte del pubblico e dei media britannici. Letby, un’ex infermiera, è stata condannata l’anno scorso all’ergastolo per l’omicidio di sette neonati nel reparto d’ospedale dove lavorava, e per il tentato omicidio di altri sei, tra il 2015 e il 2016.
In più di un’occasione i tribunali hanno vietato ai giornali di riferire informazioni sulle vittime e sullo stesso processo: nel Regno Unito è previsto dalla legge che i giudici applichino divieti di questo genere per ragioni diverse, dalla tutela della privacy, alla presunzione di innocenza, al corretto svolgimento dei processi. Le limitazioni al diritto di cronaca sono ritenute norme di civiltà e implicano sanzioni molto pesanti (compreso il carcere per i giornalisti), ragione per cui vengono abitualmente rispettate: spesso i giornali le contestano, e presentano dei ricorsi, giudicati secondo legge.
Adesso, alla vigilia del nuovo processo, nuove limitazioni sono state imposte ai giornali britannici, per garantirne il corretto svolgimento senza che questo sia influenzato dall’eccitazione mediatica intorno al caso. Ma la scorsa settimana un lungo articolo sulla vicenda e sulle accuse è stato pubblicato dal settimanale statunitense New Yorker: l’autrice ha raccontato di come abbia studiato il caso approfonditamente consultando migliaia di pagine di documentazione processuale, e colpita da come – dice – la condanna si basi solo sull’assenza di altre spiegazioni e sulla probabilità statistica che la responsabile sia Letby (che si è sempre detta non colpevole). In più, l’articolo del New Yorker affronta il modo in cui i media e gran parte del Regno Unito hanno condiviso un atteggiamento colpevolista e assai lontano dal rispetto della presunzione di innocenza che ha molto condizionato il processo.
Ma per rispettare il divieto di riferire sul processo imposto ai giornali britannici – divieto che si estende alle pubblicazioni online – e per non incorrere nelle condanne conseguenti, il New Yorker ha inibito la lettura dell’articolo sul suo sito per chi accede dal Regno Unito. Operazione che però non è possibile sull’edizione cartacea del settimanale, stampata e venduta in un’unica versione in tutto il mondo: quindi a Londra e nelle altre città del paese il New Yorker è acquistabile regolarmente con l’articolo in questione (e può anche essere letto sull’app del giornale).
La contraddizione ha generato una riapertura del dibattito sulla convivenza delle norme che proteggono il corretto svolgimento dei processi e quelle che difendono il principio della pubblicità dei processi, a tutela di tutti. Sul sito Press Gazette si sono fatte ipotesi sulle conseguenze legali del caso per il New Yorker, che non è probabilmente perseguibile perché non ha una sede nel Regno Unito, mentre ce l’ha il suo editore Condé Nast. Mentre su Nieman Lab l’autrice dell’articolo ha spiegato il suo lavoro e le sue motivazioni.
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