domenica 30 Ottobre 2022
Negli scorsi due anni Charlie raccontò con continuità i conflitti all’interno del New York Times intorno – la mettiamo grossomodo, che è una storia di molte storie – all’impegno del giornale su una serie di temi civili, e al rapporto di questo impegno con gli standard di informazione completa e libertà di espressione. Le cose sembrano essersi temporaneamente sopite da un po’, anche col cambio di direzione e con la sconfitta di Donald Trump che ha abbassato di poco la bellicosità politica statunitense. Ma proprio per questo Erik Wemple – il giornalista che si occupa di giornali invece al Washington Post – ha deciso di tornare su una di quelle storie: il licenziamento due anni fa del responsabile della pagina op-ed del New York Times James Bennet dopo la pubblicazione di un articolo di un autore ospite che chiedeva maggiori interventi polizieschi e repressivi contro alcune manifestazioni di protesta sui diritti civili.
Era stato uno dei momenti più controversi e litigiosi di quella fase al New York Times , e adesso Wemple la ricostruisce sul Washington Post per distinguere con maggior coraggio di quello che ebbe allora ( il suo articolo è un’ammissione di codardia per non aver difeso Bennet prima) il giudizio sul contenuto di un discutibilissimo articolo di opinione nella pagina dei commenti, e la scelta di un giornale di ospitarlo. Che sono due cose diverse, dice Wemple, concordando con le recenti accuse di Bennet contro l’editore del New York Times , che secondo entrambi cedette goffamente e vilmente a pressioni che intaccarono l’autonomia delle scelte giornalistiche e la libertà di espressione: quell’articolo diceva cose sbagliate, ma era legittimo e giornalisticamente sensato pubblicarlo, conclude Wemple.
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