C’è la guerra, si fanno i soldi
C’è la guerra, si fanno i soldi. Così dice un imprenditore alla festa di Natale nell’anno 2000, nel mio romanzo uscito da poche settimane, “Una linea lampeggiante all’orizzonte,” libro che qualcuno ha definito come uno sguardo spietato sul mondo dell’imprenditoria, forse solo perché lucido e ben documentato.
Ho sentito pronunciare questa frase in veneto, “ghe xè la guera…se fa’ i schei!,” a una festa di inizio del millennio, più di 20 anni fa, in un palazzo nel centro di una città veneta. Sono parole sfuggite a un industriale in un capannello di Vip, tra i quali un ricchissimo banchiere poi caduto in disgrazia e un imprenditore entrato in politica a zig-zag tra i partiti, in riferimento all’invasione di un Paese in Medio Oriente. Sfregandosi le mani e masticando con foga bocconi di arrosto, gli imprenditori calcolavano già le commesse per le forniture militari. È forse pleonastico, ma necessario, rammentare che le guerre arricchiscono chi sa approfittarne. Non solo, naturalmente, i fabbricanti di armi.
Abitando in Asia, da anni mi occupo di una regione del mondo che continua nel suo sviluppo, in false partenze e vere accelerazioni, fino a minacciare un sorpasso sull’Occidente. Ne ho scritto nel mio precedente libro, il saggio “La tigre e il drone,” in cui descrivo anche le tensioni geopolitiche attorno alla catena montuosa più alta e celebre del mondo, dove l’India si confronta con il Pakistan, a occidente, e con la Cina, a nord e a oriente dell’Himalaya. Qui, ormai da decenni, convivere con il rischio di una guerra nucleare ai confini fa parte del vissuto quotidiano. Una minaccia che diventa un capitale politico sfruttato ampiamente.
Nei suoi funambolismi diplomatici all’Onu, anche l’India punta a guadagnare dalla guerra contro l’Ucraina, tenendo buoni rapporti con la Russia proprio per arginare i nemici oltre le montagne. Come premio per la cosiddetta neutralità in seno al Consiglio di Sicurezza, al ministro del petrolio indiano è già arrivata la telefonata del vicepremier russo Alexander Novak con la proposta di acquistare il greggio respinto in Europa dalle sanzioni a uno sconto del 27 per cento. Secondo la Reuters, l’Indian Oil Corp. ha appena acquistato dalla Russia 3 milioni di barili di greggio scontato. Così, l‘Ucraina è divenuta il crogiolo del nuovo ordine mondiale.
La guerra di Putin può alterare equilibri politici ed economici in Asia, avvantaggiando la Cina, l’India, ma anche altri Paesi meglio preparati a quanto sta accadendo. Non tutte le nazioni del sudest asiatico soffrono le conseguenze belliche in maniera uguale. A qualcuno va meglio che ad altri. Ma siamo solo all’inizio, perché bisogna valutare il rischio che sanzioni, inflazione e interruzione dei flussi commerciali della globalizzazione riverberino in Asia, con scosse spaventose sui mercati finanziari asiatici che in questi giorni subiscono picchiate al ribasso viste solo nel 2008.
Guardando i fondamentali, ci sono molte diversità su come l’Asia affronta la crisi dell’invasione in Ucraina. Per esempio, l’Indonesia esporta tanto gas quanto il petrolio che importa ed esporta tanto olio di palma quanto il grano importato, all’incirca. Ha quindi un cuscinetto per arginare i danni dell’aumento del costo del greggio russo e del grano ucraino. Con l’aumento dei prezzi delle esportazioni di rame, caffè e nichelio, Giacarta potrebbe anche avvantaggiarsi delle conseguenze della guerra in Ucraina. E’ pure ricca di carbone, il cui prezzo è aumentato.
A perderci più di tutti, in Asia, saranno le Filippine, dove si vota il 9 maggio. Chi sostituirà il governo Duterte si troverà nei guai perché il Paese ha una dipendenza totale dalle importazioni di greggio, grano, mais e dalla soia usata per nutrire pollame e bestiame. Potrà permettersi posizioni di confronto con la Cina a maggiore tutela sulle isole disputate nel Pacifico, come vorrebbe l’elettorato filippino? Improbabile.
La Thailandia può puntare sull’aumento dei prezzi delle esportazioni agricole e sull’aumento del turismo saudita, se compenserà la perdita del turismo russo. Il Vietnam punta sulle esportazioni di riso, caffè e pesce i cui prezzi in crescita potrebbero pareggiare l’aumento dei costi del greggio. Ci sono nazioni che, per ragioni economiche e strutturali, sono meglio preparate a quanto sta accadendo. E soffriranno di meno, oppure ci guadagneranno.
L’impatto sulle economie asiatiche potrà spostare le alleanze filoamericane, già indebolite dall’isolazionismo dei quattro lunghi anni dell’amministrazione Trump, verso un’asse sino-russo? L’obiettivo di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, uniti dell’organizzazione B.R.I.C.S., è quello di portare il mondo verso un multilateralismo internazionale, ai danni dell’egemonia occidentale guidata dall’America.
Vladimir Putin e Xi Jinping, in un documento congiunto firmato a febbraio ai margini delle Olimpiadi, si sono dichiarati “amici senza limiti” ed entusiasti promotori di un ordine globale dove ci sia più democrazia e multilateralismo nei rapporti tra le nazioni, ovvero dove l’America non sia più “poliziotto del mondo,” ruolo abdicato ormai da anni. E dove, però, l’idea di “democrazia” all’interno dei confini nazionali assomiglia molto all’autocrazia repressiva dei diritti civili e umani che già c’è in Russia e in Cina, verso la quale rischia di dirigersi l’India di Narendra Modi, e che Jair Bolsonaro sogna per il Brasile.
Anche se in Corea del Sud si insedierà prossimamente il presidente conservatore Suk-yeol, più vicino agli Stati Uniti del suo predecessore, e anche se quasi tutti i candidati filippini promettono posizioni meno filo-Pechino del presidente Rodrigo Duterte, la possibilità che il contesto economico bellico globale acceleri la già florida crescita dei legami commerciali tra Paesi asiatici e la Cina, generando maggiore dipendenza da Pechino, esiste eccome.
La prima reazione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (ASEAN) va in questa direzione. I Paesi membri hanno dichiarato di essere preoccupati dalla situazione bellica ai margini dell’Europa, ma senza mai citare la Russia, l’invasione, l’aggressione, la violazione della legge internazionale di Mosca: come se ci fosse un generico problema conflittuale da qualche parte a Occidente che ci si augura venga risolto. Secondo l’analista Zachary Abuza, si è trattato di “codardia diplomatica.” La Russia è un partner commerciale in Asia e un potenziale o attuale fornitore di armi e altre risorse. L’Ucraina non lo è. Così Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam hanno optato per una reazione-bis a quella dell’invasione delle Crimea nel 2014: il silenzio e i toni pacati. E’ in ballo il business, dopotutto.
Nella nuova guerra di Putin, finora, gran parte dei Paesi del sudest asiatico, l’India e la Cina ricordano quegli imprenditori veneti che all’inizio di una guerra capiscono che ci sono, oltre alle tragedie umane nei notiziari, anche nuove opportunità di guadagno. Economico e strategico. E il sostegno alla Russia, neutrale o attivo, aggirando le sanzioni, è chiaramente motivato da questo. Come si dice in hindi e in cinese: ghe xè la guera, se fa i schei?