La battaglia di Bollywood contro i fondamentalisti
Quarantacinque secondi che spaccano in due l’India. Lo spot tv è banale. Una musichetta indiana suadente e allegra, una bella suocera che accompagna la radiosa nuora incinta fino a un divano durante una festa per il nascituro.
E il regalo: una collana a grappoli d’oro che la suocera mette al collo della nuora. Il nome del gioiello: “Ekatvam,” Unità. Eppure, è proprio questa collana e questa coppia a causare un nuovo scontro di religioni costringendo la multinazionale Tata, che controlla il pacchetto di maggioranza dell’azienda gioielliera Tanishq, a fare marcia indietro e ad annullare lo spot televisivo.
Perché mai? Perché nella pubblicità si capisce subito che la suocera con il capo coperto è musulmana. Così come lo sono i familiari del marito, mentre la nuora è chiaramente indù, con un anello al naso e i simboli che in India si associano alla religione della maggioranza.
Per questa ragione l’esercito dei troll fondamentalisti indù hanno attaccato sia Tanishq che Tata, accusandoli di voler promuovere la “love jihad.” Questo sarebbe un immaginario piano segreto dell’Islam che istigherebbe i giovani musulmani indiani a sedurre e portare all’altare le donne indù e incrementare i correligionari a scapito dell’induismo.
E’ una teoria sbandierata anche da Yogi Adityanath, governatore dell’Uttar Pradesh, uno degli Stati più popolosi dell’India. E’ il cavallo di battaglia degli estremisti seguaci della Trimurti, oltre a quello di linciare chi commercia nella carne dei bovini considerati sacri, i vigilantes delle vacche.
Tata è stata umiliata e, rincorsa dall’hashtag “boycott Tanishq,” ha dovuto sospendere subito la costosa campagna pubblicitaria, ma ha dovuto anche correre ai ripari.
Una showroom nel Gujarat, dopo che clienti induisti si erano lamentati dello spot, è stata costretta ad affiggere in vetrina una lettera di scuse, dissociandosi dal messaggio ecumenico di unione tra le religioni, definendolo come “vergognoso”.
Un militante su Twitter, seguito anche dal premier Narendra Modi, Hardik Bhavsar ha pubblicato i dettagli su come contattare un dipendente musulmano di Tanishq con questo messaggio ai suoi 120 mila follower: “Sapete cosa fare.”
La reazione dell’opposizione è stata immediata. Sonia Gandhi, presidente del Congress Party, ha elencato “l’intolleranza e la violenza in aumento nel Paese” oltre al propagarsi di “falsità e idee non scientifiche.”
Sashi Tharoor ha accusato i fondamentalisti dicendo che se boicottano l’“Unità” (nome del gioiello) allora tanto vale che boicottino l’India che si basa su quel concetto.
Ma se l’industria della gioielleria cede alle pressioni fondamentaliste religiose, ce n’è un’altra che invece parte alla riscossa, in questa crisi democratica che attraversa l’India.
Lo scontro degno di un film bollywoodiano, riguarda proprio Bollywood. Difatti, stanchi dopo mesi di attacchi denigratori e diffamatori da parte delle tv più seguite in India (la Republic tv e Times Now) attori, produttori e associazioni di settore hanno unito le forze per fare causa ai giornalisti pro-governativi che da quattro mesi martellano la loro audience con una campagna infangante. Nei loro servizi, le tv accusano Bollywood di essere un covo di tossicodipendenti che abusano di cocaina, Lsd, marijuana, chiamandoli “spazzatura”, “drogati”, e “tossicomani” in seguito allo scandalo di un attore suicida e all’arresto della sua fidanzata con accuse non confermate di spaccio di erba.
E’ una battaglia tra titani della comunicazione, da una parte le star che fanno sognare centinaia di milioni di indiani come Shah Rukh Khan e Akshay Kumar, dall’altra le tv che aizzano le folle all’odio anti-élite e anti-opposizione, guidati dalla celebrità del giornalismo scandalistico e spaccone Arnab Goswami di Republic Tv e i suoi colleghi di Times Now.
Dopo gli interrogatori a superstar come Deepika Padukone, trascinata alla Centrale per il Controllo dei Narcotici, i grandi di Bollywood hanno capito che ne andava della loro reputazione.
Nella causa presentata all’Alto Tribunale di Delhi da quattro associazioni di produttori, sceneggiatori, attori e artisti di cinema e tv si ricorda tra l’altro che l’industria definita “fogna” quotidianamente da questi seguitissimi canali “in realtà è un enorme fonte di reddito per le casse dello Stato e dà da vivere a molte persone collegate a Bollywood, che vengono danneggiate da questa campagna di diffamazione,” campagna combattuta anche da 80 mila fake account degli eserciti dei troll fondamentalisti riconducibili ad associazioni affiliate al partito di governo.