Zalone vs Woody Allen
Chissà perché mi sono trovato in una sala stranamente semi vuota di un sabato pomeriggio per vedere “il film di Checco Zalone,” il cui titolo ora mi sfugge. Appartiene a quella categoria dove è più memorabile l’interprete che non il titolo. La sera sono tornato nello stesso cinema multisala a vedere “l’ultimo di Woody Allen.” Questa volta, sala pienissima. Saranno stati gli orari. O forse il fatto che ci trovavamo nella periferia industriale di Vicenza, dove tra i giovani ha un po’ meno presa lo humour di Zalone, ma resiste invece il ricordo delle risate fatte con Woody Allen negli anni ’70 e ’80, in una generazione dai 50 anni in su che ancora va al cinema.
Il “film di Zalone” è stato spassoso, ficcante, rispettoso della migliore tradizione della commedia italiana, quella capace di fotografare i tempi senza buttarla per forza sul pecoreccio. Come ha fatto? È vero, ha piazzato subito il narratore nel luogo comune da razzismo anni ‘50 della tribù africana che vuole arrostire “uomo biango,” cadendo nello stereotipo del baluba con l’osso al naso e la piuma sulla testa. Una cosa tipo “Titì nun ce lascià,” di Sordi e Manfredi per capirci. E fin qui, triste e prevedibile. Poi ha raccontato anche, prendendola in giro con affetto, una donna cosmopolita contemporanea (Eleonora Giovanardi) che ha vissuto più all’estero che in Italia, con tre figli da tre amanti diversi (un africano, un filippino e un norvegese) e una stagione lesbica nel suo passato.
Chiaro, tutto con leggerezza approssimativa, occhiolini strizzati e battute sulla possibile zoofilia della scienziata come prossimo passo dopo aver avuto una relazione lesbica. Ma a immaginarsi con orrore questa possibilità è Checco, dipendente pubblico ossessionato dal posto fisso che scambia una dirigente del ministero dell’Istruzione per una segretaria solo perché è una donna (Sonia Bergamasco).
Zalone sfotte entrambi i prototipi: l’iper-moderno internascional del “voi italiani incivili siete fatti così,” e che cerca d’incivilirsi, restando segretamente legato al fascino perverso di Albano e Romina Power, del caos snervante, ma frizzante, da clacson e doppia fila. Insomma un riferimento, nel pizzetto tinto di biondo di Zalone, a quel Nino Manfredi ossigenato in “Pane e Cioccolata” che non ce la fa più a fingersi svizzero e si sgola in un sincero “Gooooool!” vedendo alla tv del bar che Capello segna contro l’Inghilterra.
E c’è poi anche il prototipo del trentenne bamboccione retrogrado e viziato “che la Mamma è la donna della mia vita,” e non gli mette mai l’aglio nella salsa perché è allergico e gli stira le camice. Questi due mondi a confronto, quello del posto fisso che la Prima Repubblica non se la scorda mai (già ronza nella testa il tormentone), sono veri e riconoscibili. Questi personaggi zaloniani sembrano più reali di quelli scureggioni dei Vanzina, o dei giovanotti nevrotici dei Muccino o zuccherini-emo dei Moccia, per rimanere in una categoria di film che ambisce sempre al racconto dello Spirito dei Tempi, come esigono i produttori.
https://www.youtube.com/watch?v=mczHiP-1C7k
Da una parte, il mondo del posto fisso in cui la minaccia alla sicurezza è non avere un lavoro a tempo indeterminato, la garanzia della sanità pubblica, l’università a costi accessibili per tutti, la pensione, e non avere udienza con un senatore maneggione e nepotista (Lino Banfi) che ti raccomanda tutta la famiglia, per capirci.
Dall’altra, il mondo dove lo scioglimento dei ghiacci è la preoccupazione principale e dove ci si illude che tornati in Italia basta far girare il curriculum e “ti chiameranno.”
C’è poi un’Italia, non raccontata in questo “Zalone,” (lo Zalone è ora una categoria cinematografica a sé, come il “Verdone”) in cui la paura della sicurezza è incarnato dal terrore di andare a fare shopping a Roma o a Milano per Natale, perché “e se arrivano quelli dell’Isis?”
Entrambe le paure, quella da posto fisso e da Isis, si sommano in gran parte dell’Italia contemporanea. Convive la cognizione che non esiste un mercato del lavoro così flessibile da pensare “di essere richiamati” con facilità, assieme alla presa di coscienza che un mondo da Prima Repubblica, oltre che corrotto, non è più nemmeno sostenibile, nel contesto del debito del Paese e della famosa “congiuntura economica.”
Si sa, più vivi nella paura e più sei manipolabile. Questa somma di paure e di “bisogno di sicurezza” ci consegna come agnellini alla macchina del consenso politico. Chiediamo protezione per minacce sempre più grandi. È un fenomeno molto da Prima Repubblica, anche se non ce ne rendiamo conto.
C’è poi anche la paura del folle omicida. Anche quella concorre al clima dalle pagine di cronaca. E passiamo allora “all’ultimo di Woody Allen.” Mentre vedevo il suo racconto tra il farsesco e l’arrovellato mi chiedevo: ma se invece di Emma Stone e Joaquin Phoenix e tutti quei bravissimi “supporting actors” ci fossero stati degli attori solo di poco meno bravi e belli e se il direttore della fotografia non fosse così seducente, quasi oltre il necessario a volte, saremmo in grado qui, noi donne e uomini di provincia, acculturati e di mezz’età, di reggere una storia così lenta e vuota ed eccessivamente letteraria per un film? Non ce ne saremmo già andati tutti se non fosse “l’ultimo film di Woody Allen” per l’affetto che proviamo per questo artista che ci ha accompagnato per tutta la vita?
I riferimenti doestoevskijani sono fin troppo chiari, la poltiglia filosofica pure, la follia dell’eccesso del pensiero di fronte alla purezza dell’azione, anche e soprattutto se azione omicida, in un professore di filosofia scombinato ed estetizzante, sono temi davvero interessanti e sempreverdi. Ok, le citazioni di Sartre e Hannah Arendt, filosofia e vita, giustizia e fato, sconnessa casualità, l’amore che non è sempre salvifico e l’irrisolvibile divergenza del pensiero femminile e maschile. Va bene. Eppure vien da chiedersi se sia questo genere di cinema il mezzo migliore per comunicare le succitate riflessioni? In questo “ultimo di Woody Allen” non c’è nemmeno la durezza di “Match Point,” osservava giustamente un’amica all’uscita del film, dove per lo meno c’è la sorpresa che (spoiler!) il cattivo, l’omicida, il ba-bau, la fa franca.
Allora, scusatemi, per divertirsi e riflettere su noi stessi, sugli altri e sullo Zeitgeist, perdonami André Bazin, assolvimi Jean-Luc Godard, abbi pietà di me Ingmar Bergman, ma a questo Allen preferisco il test di Rorschach del “film di Zalone.”