“Essere #matteorenzi”
Renzi è storytelling. Lui stesso sostiene che “le cose in sé non esistono. Esistono solo le interpretazioni”. Quindi conta solo lo storytelling, cioè come la racconti. E Renzi la racconta molto bene.
Per capire Renzi bisogna analizzarne il linguaggio. Le parole che usa, come e dove le usa. Cool, smart, “interloquire” invece di “dialogare con”, “discettare” invece di “parlare di”. Renzi parla come la maggior parte di noi quarantenni italiani. Per questo viene ascoltato e per questo vince: si esprime con il linguaggio dell’italiano medio che lui stesso è, non un modello che imita o che interpreta.
Renzi è il prodotto culturale della somma dei seguenti elementi: il liceo, ma ancor più le elementari e le medie, la prima pagina di Repubblica, Che tempo che fa di Fazio, qualche citazione da Wikiquote, un po’ di Jovanotti e Muccino e “oh, che forte Will Smith, vero?” Cioè tutto quello che, secondo l’anonimo amico snob di Claudio Giunta, citato spesso nel suo acuto “Essere #matteorenzi” (il Mulino, 80 pp. 8€) non è nient’altro che “pornografia sentimentale del cazzo!”
È profondo e spassoso questo saggio appena pubblicato dal professore straordinario di Letteratura Italiana dell’Università di Trento, autore che già nel 2008 aveva previsto ciò che è poi accaduto, nel suo L’assedio del presente, sulla rivoluzione culturale in corso. A me queste analisi di Giunta ricordano il semiologo americano Marshall Blonsky di American Mythologies che riusciva a spiegare la società americana degli anni ’90, e ad anticiparne gli sviluppi, anche attraverso la fenomenologia di una valletta in tv (non a caso un commento di Umberto Eco fa da prologo a queste Mitologie Americane). Ma qui siamo in un linguaggio più ficcante, in un’analisi che si fa strada a sciabolate di intelligenza e di coscienza storica, oltre che di competenza linguistica.
“Un quarantenne che conserva la mentalità, la frenesia, il linguaggio e la determinazione di quando aveva 25 anni può essere un coglione infrequentabile,” scrive Giunta, “uno di quelli che si schiantano facendo bungee jumping. O può essere un condottiero”. Ecco, non pensate che sia la solita denigrazione supponente ai danni di un leader carismatico. Giunta nell’ultimo capitolo di commiato al lettore, tutto tra parentesi, si dichiara quasi renziano. Ma qui si parla di linguaggio, di decodificare Renzi per capire chi siamo diventati noi, nel senso di quelli nati negli anni ’60 e ’70, generation Renzi, per intenderci. Essere quarantenni oggi vuol dire esser stati in qualche modo contagiati o sfiorati, volenti o nolenti, da una dose di buonismo, da valori post-comunisti, forse, ma certamente anche da quella galassia di valori cattolici, volontariato e carità che sono l’orgoglio di una parte di questa nazione. L’idea di una società cristiana basata su un patto, ragiona Giunta, Renzi l’ha imparata da La Pira. Ma, appunto, non ha mai funzionato in Italia.
Il libro si apre con una scena del Festival dell’Economia a Trento, giustapponendo lo stile soporifero da “avanzo stantio di sinistra novecentesca” di un discorso di Franco Marini, con l’arrivo sul palco di quel “pasdaran della moderazione” che è il Renzi “auto-ironico per finta”. I primi tre capitoli si leggono quasi come dei reportage. Si passa all’intervista in ginocchio di Mentana per dimostrare la capacità di Renzi nel rivoltare le risposte su ciò che lui vuol dire, non su ciò che gli viene chiesto. In assenza di giornalisti incalzanti, il gioco riesce facile.
Non confondetelo con Berlusconi, il raccontatore di barzellette. Renzi è un battutaro che ha vinto anche perché ha i tempi giusti per la sua generazione. Velocità, precisione e focalizzazione sono la spina dorsale del Renzi-Spracht. Ha successo perché gli riesce di vendere ottimismo da sinistra. Anche ottimismo patriottardo al sapor di positivismo americano. “Gli italiani sono sempre stati i migliori del mondo”, spara, ospite da Fazio. Una “fede che si fonda sul quasi nulla: ma piace”, dice Giunta, che più avanti aggiunge: “Senza La meglio gioventù Renzi non esisterebbe”, per dire che Renzi ha trovato la chiave emozionale-motivazionale per dividere il mondo in buoni e cattivi con vero entusiasmo e senza ombra di dubbi (il Dubbio: bandiera d’orgoglio di una sinistra che al momento sembra seppellita. Non dal Dubbio, dai voti).
Il patriottismo renziano è un “orgoglio del soft-power,” del “siamo i migliori” in cui si ravvede forse una matrice dell’orgoglio campanilista fiorentino. Ma oltre il patriottismo soft, il linguaggio young, le battute light, e l’Atteggiamento Mentale Positivo da manuale, si arriva alla sostanza.
La sostanza è che Renzi non rappresenta certo una rivoluzione. Non la vuole, non la vende, e neanche mai l’ha promessa. La sua rottamazione (Mattarella?) promette di “oliare la macchina e fare in modo che funzioni a regime. Vogliamo la Danimarca, non la Città del Sole di Campanella, che era matto”. E questo riformismo, questa ricostruzione, si fa direttamente, senza il fastidio di quei “corpi intermediari” che sono i partiti, o gli intellettuali; si fa senza interposta persona, tra leader ed elettori (in questo Renzi è pienamente nello Zeitgeist già incarnato da Berlusconi e Grillo).
Non per niente l’ex sindaco di Firenze è un demolitore di paratie. Non solo quelle possibili tra il leader e i suoi elettori, ma anche di qualsiasi cosa che s’interponga tra alto e basso, tragico e comico, popolare e colto. Renzi in questo vince su tutti. Batte il Berlusconi da avanspettacolo, l’ex ministro De Michelis e le sue guide alle migliori discoteche, l’Andreotti testimonial tv con la Marini, e batte anche il presidente Pertini in diretta tv dal pozzo di Alfredino. Non è che Renzi “ogni tanto” fa cadere le paratie. Le fa cadere sempre. Con il suo linguaggio semplifica e quindi unifica, dando un po’ ragione a tutti, accattivando, seducendo.
Ma, conclude inevitabilmente Giunta, sotto l’intonaco dello storytelling e del positive thinking, il quarantenne di oggi, guardando bene, può veder saltar fuori tutta un’atroce Italia in carton-gesso, riconoscere la malattia nazionale del comparire, del far bella figura o almeno di non sfigurare per arrivare all’Italia Estrema, quella della Repubblica democratica fondata sulla Fuffa. Questo non è Renzi, che è ovviamente di più. Ma è il suo linguaggio.
Foto: AP Photo/Gregorio Borgia