Sui pericoli del trigger warning
Avendo scritto nei miei libri di clisteri ayurvedici, violenza familiare, parricidio e cannibalismo per amore sono un po’ preoccupato dal recente dibattito sul “trigger warning”.
Preoccupato perché temo che si imponga il punto di vista dell’associazione studentesca dell’Università di Santa Barbara che chiede vengano marchiati come fossero film a luci rosse anche i prodotti letterari che possono in qualche modo traumatizzare i lettori in età universitaria.
Il ragionamento è comprensibile. Vi spiego prima il fatto che lo ha causato: una studentessa che in passato è stata vittima di molestie sessuali si è sentita a disagio durante la proiezione di un film in classe perché in una scena si vedeva uno stupro. Alzarsi ed andarsene avrebbe significato segnalare pubblicamente il suo disagio, cosa che non voleva essere costretta a fare. È rimasta bloccata a rievocare dolorosamente e in silenzio il suo trauma. Ma poi ha affrontato il tema con i professori.
Così gli studenti hanno chiesto di essere avvertiti da un apposito sistema di segnalazioni nel caso in cui il materiale da studiare o analizzare nei corsi universitari contenga tematiche misogine, violente, razziste o colonialiste che possano evocare traumi negli studenti. Alll’Università di Santa Barbara, in California, si sono aggiunti l’Oberlin College, la Rutgers University, la University of Michigan, la George Washington university e alcuni altri atenei.
Il rettore del Daemen College, Gary A. Olson ha scritto la reazione più ponderata, finora, sul “trigger warning” sostenendo a ragione che “un apprendimento significativo si verifica solo con la dissonanza cognitiva, cioè quando del nuovo materiale entra in conflitto con ciò che lo studente pensava fosse vero o con l’esperienza di vita dello studente, costringendolo a raggiungere un livello più profondo di cogitazione e riflessione.”
In altre parole, l’apprendimento avviene quando si mette in discussione ciò in cui si crede.
«Se sei Cristiano, dovresti imparare qualcosa sull’Ebraismo, l’Islam e le altre fedi, anche sull’ateismo. Se sei di sinistra dovresti perlomeno studiare la filosofia dei conservatori».
Nell’arte e nella letteratura, l’utilizzo realistico di verità traumatiche può servire proprio a scioccare il lettore per fargli riconoscere la natura di qualche cosa che non può, non vuole o non riesce a vedere: la crudeltà della guerra, perché lo stupro è una violazione disumana di un’altra persona, perché la schiavitù è stata e continua ad essere un errore, perché è sbagliato restare indifferenti alle violenze in famiglia. L’arte della civilizzazione, scriveva Stendhal, consiste nell’unire ai piaceri più delicati la frequente presenza del pericolo.
Ma ciò che trovo preoccupante è la scelta di creare ammonimenti appositi, etichette istituzionali che avvertano che nella “Divina Commedia” ci sono scene di antropofagia, che in quel ramo del lago di Como una ragazza viene rapita con l’intento di stuprarla, che nel libro “Cuore” ci verificano scene di bullismo che potrebbero traumatizzare qualche giovane lettore. Viene da riesumare la sacrosanta massima di Carlo Emilio Gadda: «In ambienza bugiarda, in circostanza corrotta, lo spirito dello scrittore è preso da un’angoscia, da un’unica: col suo segno, duro segno, reagire alla scioccaggine».
Ma il problema del “trigger warning” sta anche nel fatto che un’opera artistica, per quanto sia vista sempre più come prodotto commerciale, in questo caso non lascerebbe più solo all’autore la prerogativa di anticipare o meno i contenuti forti del suo libro nella quarta di copertina a cura dell’editore (o nelle note nel caso di un ebook), ma sarebbe un’Università, un Canone, un Comitato, un’Accademia o peggio ancora un Ministero a timbrare un’opera con una specie di tripla X infamante.
«Fate guardare o leggere scene scioccanti agli stupratori, non alle vittime», dicono i trigger warners. Giusto, infatti librerie e cineforum nelle prigioni posso essere utilissimi strumenti rieducativi.
Ma intanto lasciateci continuare a shoccarci e a riconoscere i nostri traumi nelle evocazioni letterarie. Perché questo traumatizzarci artistico può, sì, a volte rischiare di spingere all’emulazione (si parla tra i sostenitori del “trigger warning” dell’istigazione al suicidio), ma potrebbe anche, più facilmente, spingerci a superarli, guardandoli da vicino, studiandoli, de-strutturandoli, addirittura curandoli.
Non credo alla reazione spartana di alcuni commentatori americani che sostengono sia sciocco proteggere gli universitari dalla realtà, perché non sono dei bamboccioni. Ci sono delle ragioni comprensibili nelle richieste di chi vuole il “trigger warning”. Ma il rischio di trasformare la letteratura in una sterile tassonomia di tematiche più o meno traumatizzanti è qualcosa di talmente depauperante della potenza della scrittura e della lettura che sarebbe meglio lasciar perdere.
Oppure dovremmo ammettere, come scrisse l’autore svedese Stig Dagerman, che «la tragedia dell’uomo contemporaneo è che non osa più avere paura».
(Trigger warning: Dagerman morì suicida a 31 anni).