Sulla non-morte del romanzo
Il romanzo non è morto. Non è nemmeno nato, a dire il vero, in quanto il romanzo non è un essere vivente, siamo seri, ma è un mezzo per trasmettere il pensiero dell’autore ai suoi lettori. Per qualche secolo questa comunicazione è avvenuta tramite la scrittura e continua ad essere così.
Da quando è stato scoperto un nuovo metodo per consegnare i pensieri scritti di un autore ai suoi lettori ci si preoccupa del fatto che il veicolo utilizzato per questa “trasmissione del pensiero” possa alterare il modo in cui il contenuto viene recepito.
Attorno ai temi di questi due paragrafi si avvita da qualche anno un dibattito che riguarda la lettura. Recentemente sul “Guardian,” “New York Times” e “Corriere della Sera,” sono stati pubblicati (sia su carta che in Internet) interventi stimolanti su questo tema.
Will Self ha firmato una analisi approfondita dal titolo “Il romanzo è morto (questa volta sul serio),” ovvero il testo di un suo intervento a Oxford pochi giorni fa. Dice Self che il romanzo come forma letteraria sarebbe dovuto morire con Hemingway e Fitzgerald e poi sepolto per sempre con “Finnegan’s Wake”. Invece si è trascinato per altri tre quarti di secolo. I bei romanzi usciti dopo l’epopea di James Joyce, scrive Self, altro non erano che zombi: “esempi di una forma d’arte non-morta che rifiutava d’estinguersi.”
Le menti gutenberghiane (per citare MacLuhan) di molti critici letterari sono rimaste bloccate nelle loro prigioni di carta. Però, nonostante ciò, nulla può sostituire la profondità dell’esperienza della lettura.
Così, i cowboy del libro stampato da qualche anno si chiudono a cerchio attorno a biblioteche e tipografie, accerchiati dalle tribù degli e-book. Libri gratis per bambini, borse che con slogan supplichevoli implorano d’essere riempite di libri, scambi di libri, volumi abbandonati in luoghi pubblici per esser condivisi, club di lettori, presentazioni, fidelizzazione del lettore. E poi tutto un inno al fascino fisico del libro, il piacere dei polpastrelli sulla carta, gli effluvi profumati che escono da quelle pagine, descrizioni sensuali di un oggetto che sempre più spesso finisce a macerare in umidi garage e il cui valore commerciale tracolla del 95 per cento subito dopo l’acquisto. Misure disperate, dice Self.
Eppure qualche segnale fa sperare i cowboy nell’ “arrivano i nostri”: l’anno scorso negli Stati Uniti le vendite di libri a copertina rigida sono aumentate del 10 per cento, mentre le vendite di e-book sono calate del 3 per cento. Effetto snob o status symbol, forse. Ma il dato c’è.
La realtà, dice Self, è che i libri di carta sono destinati comunque ad essere una tecnologia minore, anche se il beau livre sopravviverà. Ma la domanda è: sopravviverà la vera lettura, il pensiero profondo?
L’avvento della nuova tecnologia di lettura non cambia il codice, cambia la mente. Il mezzo è il messaggio. Ci voleva Internet per resuscitare le verità di MacLuhan, il cui pensiero torna giustamente di moda.
Self pone l’unica domanda pratica che riguarda la battaglia tra libro stampato e ebook, tra lettura con concentrazione profonda contro lo skimming e il browsing della cosiddetta Nuova Intelligenza (basata su sinossi ed estratti, su Wikipedia e Google): i lettori saranno in grado di disattivare volontariamente il collegamento internet dei lettori digitali quando sono assorti in un romanzo o saggio?
Quattro anni fa, recensendo per il Sole 24 Ore un saggio di Nicholas Carr su quello che Internet sta facendo ai nostri cervelli avevo già proposto questa semplicissima seppur virtuosa soluzione. Mi ero imposto di leggere proprio su un lettore digitale un libro la cui tesi è contraria alla lettura degli ebook. Interruppi la lettura (in ebook) di “Anna Karenina” per leggere il saggio “The Shallows” di Carr, finito il quale completai tranquillamente il capolavoro di Tolstoj.
Carr descriveva l’avere un cervello letterario come la capacità di mantenere l’attenzione su parole, idee ed emozioni che fluiscono dentro di noi. Il lettore diventa il libro. Esce da questo genere di lettura trasformato (solo se il libro in questione è in grado di arrivare a questo, naturalmente). Ma questo è possibile solo con la carta.
Perché una volta che ci si è abituati al multitasking il nostro cervello perde la capacità di concentrarsi a lungo, sostiene Carr. Ma a me bastò spegnere la connessione wi-fi del lettore digitale per consentirmi di utilizzare l’ebook come un libro che mi comunicò, senza distrazioni, un contenuto profondo che 4 anni dopo ricordo ancora.
È quel Pensiero di cui scrive anche David Brooks sul “New York Times” in un editoriale intitolato “Love Story” rievocando una conversazione letteraria durata una notte intera tra Isaiah Berlin e la poetessa Anna Akhmatova. Lei recitava il “Don Juan” di Byron facendo piangere Berlin, poi discutevano delle differenze tra Pushkin e Chekov. Berlin dichiarava di preferire la leggerezza dell’intelligenza di Turgenev, l’Akhmatova preferiva l’intensità oscura di Dostoevskij.
Mentre la poetessa confessava la sua solitudine e le sue passioni, Berlin non riuscì nemmeno ad interrompere l’incantesimo di quel dialogo letterario per andare un attimo al bagno.
“Berlin e l’Akhmatova,” commenta David Brooks, “furono in grado di creare quel dialogo che cambiò la loro vita grazie al fatto che avevano entrambi assorbito delle buone letture. Erano spiritualmente ambiziosi. Avevano in comune il linguaggio della letteratura, scritta da geni che ci capiscono meglio di quanto noi capiamo noi stessi.”
Paolo Di Stefano sul “Corriere della Sera” ha scritto un testo stimolante e pieno di speranze in questo senso. Ricordando l’esortazione foscoliana “O italiani, vi esorto alle storie” sostiene che non è troppo tardi, perché attraverso la lettura dei grandi romanzi europei si può “aprire quello scrigno d’argento in cui ritrovare sé stessi.” Che poi Di Stefano possa pubblicare questo genere di ragionamento soprattutto in funzione di una promozione marketing per romanzi letterari in vendita con il Corriere toglie poco al valore dell’analisi.
L’identità europea nasce dal romanzo (sì, anche dall’economia e dalla scienza, ma trova un senso nel romanzo). E anche per questo ormai che ha meno senso parlare di letterature nazionali. I veri autori contemporanei europei sono influenzati da Balzac, Hugo, Dickens, Mann, Marquez, Kafka, Kundera, Tolstoj, Calvino, Bernhard, Philip Roth o Pynchon in egual misura, non sono discendenti di padri che scrivevano nella loro stessa lingua, sono figli della Weltliteratur.
Sopravviverà tutta questa fondante ricchezza culturale, travasando il romanzo dalla carta allo schermo?
Ogni nuova tecnologia ha bisogno di uno (spesso doloroso) assestamento nell’integrarsi alla cultura dei suoi inventori.
Riusciranno i lettori a costringere se stessi (o con l’aiuto di utili e già esistenti App) a quel semplice “click” che scollega la lettura continuativa dalle distrazioni della rete, dai “ping” delle mail, delle chat, dalla seduzione della ricerca infinita?
Non lo so. Provateci. E vedrete forse che le 853 pagine di un romanzo di Stephen King ambientato nel 1963 si leggono con facilità anche su uno schermo, così com’è possibile leggere Tolstoj, Jack London, Platone e lo stesso MacLuhan.
L’importante è scollegare wifi o connessione Internet e avere le batterie cariche, nell’interesse della salvaguardia del pensiero continuativo e profondo.