Sfida tra il satrapo indù e il principino italo-indiano
CHENNAI (TAMIL NADU) – Che peccato ritrovare un’India così polarizzata tra promesse di Nirvana istantaneo di un nazionalista indù che da piccolo portava vassoi di thè ai viaggiatori e l’ultimo, riluttante erede di una gloriosa, ma pur sempre asfissiante dinastia politica.
Modi vs. Gandhi. Narendra contro Rahul. La piovra mediatica esige semplificazioni. La sfida elettorale indiana del 2014 per rieleggere i rappresentanti parlamentari è già iniziata. Narendra Modi è sulla bocca di tutti. È come una scossa di energia che trapassa la classe media indiana della Not-so-new India. Il suo nome entusiasma insospettabili giovani imprenditori laici, scienziati razionalisti e scrittori cosmopoliti.
Al matrimonio di un’amica a Chennai, tra 800 invitati in kurta e sari, l’industriale trentenne Praveen Sai Chander (biocarburante) mi dice: “Modi è l’unica speranza di cambiamento. Nessuno ha dubbi. Solo lui può portarci qualcosa di nuovo.” Lo affianca Mohit Bajaj (industriale di materiali ospedalieri): “Non è un estremista indù. È l’uomo che cambierà l’India. Io sono già cambiato grazie a lui. Ora voglio entrare in politica. Ridare qualcosa alla società. Credo in lui.”
Dal Gujarat fino al Tamil nadu, l’ex proselitista laico (il pracharaks dedito castamente alla causa induista per 10 anni prima di diventare chief minister) ha riempito i baracchini del thè di tutta l’India con immagini della sua barbetta bianca e sguardo intelligente. I “Na.Mo. tea” sono però frequentati da tutti, non solo dai suoi sostenitori. Anche da quei musulmani che giurano di odiarlo per aver chiuso un occhio durante i pogrom del 2002, quando 1000 islamici furono arsi vivi, stuprati e massacrati dalle folle per vendicarsi dell’assassinio di 52 indù. All’epoca Modi, invece di scusarsi, citò la terza legge di Newton: “Ogni azione ha una reazione uguale e contrapposta”.
Le acrobazie comunicative per far dimenticare il “2002” gli stanno riuscendo. “Più bagni pubblici, meno templi!” ha annunciato, sorprendendo tutti e mettendo a tacere le accuse di estremismo dei suoi avversari, il Congress Party di Sonia Gandhi e del figlio Rahul, candidato premier 43enne. “Sonia sei malata, lascia il posto al tuo delfino!” ha sibilato Modi in un recente comizio, rompendo un tabù di media e politici, quello di non parlare del cancro della leader italo-indiana.
La vittoria del fondamentalista indù sarebbe la fine dell’intrinseco secolarismo voluto dal guju Mahatma Gandhi, pacifista fondatore dell’India indipendente? Come potranno convivere i 154 milioni di musulmani in un’India che vuole tornare ad essere “puramente indiana” (eufemismo per dire più induista). Cosa accadrà se la Hindutva (induità) di Modi prenderà il controllo del paese? Così va chiedendo il Congress Party che tenta di rimodulare le basi del confronto, avvertendo che il terrorismo islamico in un’India non più secolare potrebbe aumentare, con massacri religiosi e stragi.
Narendra Modi parla di un cambiamento immediato, un modello di sviluppo come quello del Gujarat, “la nuova Corea del Sud,” come ha dichiarato. “Il Congress Party ha un dottorato in corruzione,” insinua. E promette meno mazzette, più sviluppo, edilizia, tecnologia, modernità. Ma genuflettendosi alla Trimurti indù.
Rahul Gandhi, intanto, litiga con il suo partito e parla di programmi concreti, noiosi e a lungo termine. Ma lo fa in maniera talmente poco entusiasmante che circola addirittura la voce sia epilettico e imbolsito dalle medicine: voce messa in giro da un politico del Bjp, il partito politico induista che vuole a tutti i costi trasformare la sfida in un duello di personalità tra Modi e Gandhi. Il Congress insiste che contano solo i programmi.
È inutile. Modi vende. La sfida piace. Ma un uomo come Rahul che ha dichiarato di non volere figli affinché non siano costretti a entrare in politica come lui, quante possibilità può avere contro il leader più carismatico che l’India abbia avuto da quando è stata assassinata Indira Gandhi (di cui il nipote Rahul non ha ereditato nemmeno un grammo di magnetismo)?
“Stiamo attenti alla fuffa mediatica e agli entusiasmi dei ragazzini ricchi,” mi avverte l’acuto Salil Tripathi, giornalista e direttore politico dell’Istituto per i Diritti Umani: “il Bjp non ha i numeri per vincere. Il Congress ha più chance. Quegli imprenditori entusiasti, con un cocktail in mano, sono pronti a cambiare l’India, ma se c’è da fare la fila per ore, al caldo, spesso non vanno nemmeno a votare.”
Ma né il Bjp di Modi né il Congress della dinastia Gandhi (non dissimile alla dinastia Bush, come tutti fanno notare in India), hanno i numeri per vincere da soli. Ci vorrà una nuova coalizione simile a quella al potere, l’Upa. Bisognerà fare contenti i Tamil anti-Sri Lanka di Jayalalitha nel sud, ma anche il chief minister Nitish Kumar nello strategico Bihar. E altri ancora.
La gara è aperta. Il Congress è esperto in mediazioni e coalizioni. Modi sa accentrare, non comporre le differenze. Certamente non sa dialogare con i musulmani, che lo accusano di fascismo. Difatti, Modi ha già rotto con un partito alleato al Bjp da 17 anni che l’accusa di dispotismo.
Ma quest’accusa incide? Come insegnano Turchia, Sri Lanka, Cina e Russia, nei paesi dov’è arrivato il benessere capitalista dopo decenni di povertà, ancor più importante di democrazia, libertà d’espressione o tolleranza civile c’è il sacro diritto ad arricchirsi. Se azzecchi la crescita economica, come Modi in Gujarat, gli elettori ti fanno passare liscio quasi tutto. Modi infatti ha dalla sua quasi tutte le tv, oltre a chi è preoccupato da una crisi aggravata dalla scivolata della rupia. Il Congress, però, ha una forte base di partito e di elettori.
La sfida è vera. Ma non è tra due uomini. Quello tra il satrapo guju e lo shehzada italo-indiano (“il principino,” come lo sfotte Modi) è solo un primo capitolo per stabilire quale coalizione (e con quale governabilità) guiderà l’India fuori dal rallentamento della crescita e verso il futuro importante che comunque l’attende.
(pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”)
(versione con foto a questo link)