Priebke, gole profonde e giornalisti
Ricordo il giorno dello scoop di Sam Donaldson. Si vedevano le immagini del reporter americano che si avvicinava a un signore anziano che indossava un cappellino con una piumetta che svettava sulla tesa.
Polo a righe, golfettino, macchie di anzianità sul viso. Cercò di discutere con l’americano. “Dovetti obbedire agli ordini” e poi “Era il 1933, non erano i tempi attuali”. Se ne andò scocciato e disse a Donaldson, prima di sbattere la porta: “Lei non è un gentiluomo.” E il giornalista, ironico, mentre Priebke sgommava, gli rispose: “Io non sono un gentiluomo?”.
Era il 1995, preso dall’eccitazione della notizia, cercai il modo di contattare Priebke per intervistarlo. Sfogliai l’elenco telefonico di San Carlos di Bariloche, la cittadina argentina dove fu avvistato, e trovai subito un nome: Erico Priebke. Telefonai, rispose sua moglie e intervistai lei. Mi resi conto che per scovare il criminale nazista, come aveva fatto Donaldson, era stata necessaria prima di tutto la volontà di farlo (meno banale di quel che potrebbe sembrare) e poi po’ di solerzia e ingenuità.
Non entro nel merito delle riflessioni sulla fine di Priebke centenario, morto ai domiciliari in una strada tra via Boccea e via Aurelia a Roma. Rifletto sul giornalismo di cui si parla tanto, ma che porta sempre meno sorprese, nonostante finalmente la parola “inchiesta” sia di nuovo di moda.
La catena si è accorciata, ora sono le gole profonde che parlano in diretta. Se non fosse per gli Assange e gli Snowden, che nulla hanno a che vedere con un Sam Donaldson o i tanti citati Bob Woodward e Carl Bernstein del Watergate, avremmo ben poche rivelazioni che spiegano come stanno davvero le cose.
Ed Erico Priebke sarebbe ancora a casa sua in Argentina.