Nel labirinto dei codici colorati
AUROVILLE, TAMIL NADU – Pierre Legrand è arrivato ad Auroville più di 40 anni fa e si può dire che sia stato uno dei fondatori di questa comunità rivoluzionaria dedita a seguire gli insegnamenti di Sri Aurobindo e della sua socia francese, nota solo come La Mère, la madre. Qui si vive in comunità, il denaro non esiste, non esiste proprietà, si agisce collettivamente, ma si crea individualmente.
Legrand è un artista dotato. La sua casa tra alberi e praticelli è un caleidoscopio di punti colorati che contrassegnano il suo ultimo periodo artistico, un labirinto cromatico nel quale è bello addentrarsi come in un castello stregato di un Luna Park.
“Attenti a non perdervi,” avverte due ospiti che entrano prima in cucina e poi nello studio. Ma è un piacere perdersi tra i giocattoli di Pierre Legrand.
Là sul muro c’è una sagoma che sembra un omaggio a Niki De La Saint Phalle. “Indovinato!” dice. E quelli invece assomigliano a didgeridoo australiani. “Gli aborigeni e la loro arte mi hanno sempre affascinato,” conferma, “anche loro danno importanza alle vibrazioni e al livello sottile della creazione. A differenza loro, io dipingo per capire la vita, per mettere a nudo l’incredibile complessità della materia e dell’invisibile. Così ho scoperto uno strumento di conoscenza e con esso diagrammi di energia simili a quelli della tradizione tantrica della pittura. E li ho nascosti nelle mie opere.”
Quest’artista settantenne sembra avere una saggezza degna dei suoi lunghi capelli bianchi, ma anche l’energia creativa di un bambino divertito e divertente. E in questi ultimi anni, il gioco preferito di questo bimbo canuto sono stati i codici. Quelli che nei suoi quadri e sculture sembrano segni, sono in realtà lettere di un alfabeto in codice. I grandi pannelli di carta incisa contengono infatti le trascrizioni in codice delle sue poesie e di quelle della moglie, la scrittrice e poetessa indiana Anuradha Majumdar (“Lontano dal Paradiso” Fazi), con la quale vive qui ad Auroville.
Ma com’è arrivato in questa capitale della neo-spiritualità? Poco più che ventenne e appena laureato in ingegneria ottenne un lavoro molto ben pagato per la multinazionale petrolifera Texaco in Senegal e Camerun. “Era un suicidio spirituale. Gli occidentali in quei paesi africani erano colonialisti e razzisti.” Abbandonò tutto, si mise in viaggio per cercare una direzione nella vita e in Giappone incontrò un amico. “Mi raccontò d’essere rimasto bloccato per un mese a Pondicherry dove, disse, ‘ci sono un sacco di idioti che stanno tutti attorno a una vecchia signora che vuole cambiare il mondo‘. Disse proprio così,” si mette a ridere, “in quel momento capii che dove dovevo andare lì. Era il 1967. Non me ne sono più andato.”
E come nasce invece la ricerca artistica sui codici? “Qui ad Auroville c’è molta disciplina,” risponde Legrand, “ogni giorno si ripete il mantra come fosse una formula segreta, perché qui si crede che il mantra abbia un potere. Alcuni decenni fa scoprii che, scrivendolo, il mantra acquisiva ancora più potere. Lavoravo a una griglia per un progetto architettonico e mi misi a scrivere il mantra su una specie di schema grafico. Era solo una pratica spirituale, ma mi resi conto che aveva una bellezza tutta sua, compresi che era arte e capii che la vibrazione di quel che si scrive corrisponde a qualche cosa che c’è nella realtà, oltre la pagina o oltre l’opera d’arte. Allora cominciai a scrivere dei messaggi con quest’alfabeto: li chiamavo ‘Lettere all’Invisibile’.”
E nacque la carriera d’artista, le mostre collettive internazionali, prima in Germania e poi in Francia assieme a Richard Serra…”Viaggiavo in Europa una volta l’anno. La tela da pittura pesava troppo e inventai una tecnica con i teli anti-zanzara, il cui materiale è così lieve che il colore stesso diventa il supporto. Trascrissi su enormi veli 108 poesie di mia moglie Anu. Fu il punto di non ritorno. Prima usavo il colore della terra e poi, per due anni, lavorai solo con il bianco. Poi iniziò un periodo pieno di colori.”
Il suo studio è tappezzato da questi codici variopinti. Sembra la sala giochi di un asilo infantile, con tanti bolli di colore che rallegrano la vita, l’esplosione in un colorificio. Sfogliare i quaderni di Lagrand è in sé un’esperienza artistica. Anzi, i suoi quaderni, fitti di segni, codici, tabelle, numeri, frasi, poesie e annotazioni, sono parte dell’opera. In essi si legge l’invenzione di un linguaggio artistico di un nuovo alfabeto che nasce dalle parole e si scompone poi in simboli e in colori.
Così un “L” è magari il colore giallo, e una “D” potrebbe essere il rosso. E le frasi diventano colori. Ecco spiegato che quel salone di giochi in realtà si trasforma in un libro scritto e illustrato nel quale si può passeggiare senza nemmeno sentire la necessità di tradurre con la ragione il senso del racconto. Come se si potesse assorbire il significato delle poesie di Anu e di Pierre senza codificare l’alfabeto, ma respirandone il puro e semplice effetto cromatico.
Insomma, con questo codice che trasforma le lettere in colori ha inventato un software? Ride. “Sì è un programma, ma serve a esprimere una gioia senza avere limiti. Così ho anche scoperto un materiale che si può dipingere in entrambi i lati. E ora dipingo su nuovi materiali flosci, che si muovono con il passaggio dell’aria e mi ricordano una pelle. Ecco questo mi piace proprio,” dice accarezzando un telo, “è più leggero. E io voglio avere una vita più leggera, quindi è normale che arrivi a questo.”
Legrand in questa fase segue un’ispirazione meno matematica e più istintiva, ma sempre con il linguaggio in codice. “Che è un codice non codificabile. Solo io posso risalire al significato, ma non è questo il punto. La comprensione razionale del significato non centra nulla.”
La libertà dal significato quindi? “Ah, la ricerca di significato l’ho lasciata andare un bel po’ di tempo fa! Non è il significato che conta. Ha presente le pitture primitive nel Sud della Francia? Ecco quelle evidentemente sono pitture che non devono essere viste, no? Perché c’è qualcosa di magico e di segreto in esse. Il processo della creazione è importante in sé, poiché creando ti senti energizzato. Non è il testo in sé ad essere l’unico centro dell’opera, anche il crearlo fa parte dell’opera. Scrivere è in sé un elemento energizzante, così come lo è creare un’opera d’arte. I monaci tibetani scrivendo su una pietra dicono: tu puoi cambiare un luogo. Intervenendo con la tua creazione dai energia a te stesso e al luogo. Come i poeti della Bahkti qui in India cantano la bellezza della creazione, anch’io canto la gioia dell’esperienza, e la mia è una canzone di gratitudine.”
La pittura per Legrand è stata “un processo per curarmi dal cinismo e dal pessimismo.” E ora deve fare i conti con il passato, preparando una retrospettiva. “Vedendo quello che ho fatto in tutti questi anni mi sono chiesto se avevo più bisogno di una galleria o di uno psicanalista.”
Così è andato ad analizzare di nuovo l’istante in cui capì che era un artista. Era il 1984, aveva appena disegnato i mobili per un night club nel sud della Francia e l’architetto non gli pagò il lavoro. “Rimasi così deluso e rattristato per la falsità di quella promessa non mantenuta, per la menzogna che accompagna sempre l’umanità, che restai fermo immobile per 5 ore. E poi ebbi una visione. Vidi molte luci. Dall’oscurità profonda della tristezza nella quale ero precipitato arrivava una luce meravigliosa. Vidi tutto quello che ho sviluppato come opera d’arte negli anni. Ma non fu né facile né immediato. Ci ho messo 15 anni a descrivere quello che vidi in mezz’ora. Esistono due parole che riescono a esprimere quella visione in maniera sintetica e precisa, due parole che spiegano che non puoi separare la tecnica dal messaggio. Le ha scritte un poeta italiano che ha avuto una vita difficile. Sicuramente le conoscerà già. Sono: ‘M’illumino d’immenso’ di Giuseppe Ungaretti.”
(versione integrale dell’articolo apparso sul supplemento culturale Alias – il Manifesto, sabato 27 luglio 2013)
A questo link, la versione con più fotografie.