Stugots
Muore un attore. Non solo un viso visto al cinema (poco), ma una faccia familiare seguita regolarmente in una serie tv.
Da pochi giorni, i Soprano erano stati premiati per la miglior sceneggiatura nella storia delle serie tv. Il viso che meglio li ha rappresentati, il depresso e dinamico capofamiglia interpretato da James Gandolfini, ne era il perno principale. Perché dovrebbe importarci la morte di uno sconosciuto? Poiché, anche se le raffigurazioni e maschere che ci sfilano davanti ogni giorno sugli schermi della quotidianità ci appaiono a volte più familiari di mogli, mariti, figli e genitori veri, esse non lo sono, anche se ci può far comodo dimenticarcene. Ma la morte di James Gandolfini, o “Tony” o “the Tone” Soprano ci riporta alla discussione aperta da una dozzina d’anni su quella forma narrativa che è la serialità tv e che riprende in qualche modo quella della letteratura nella prima fase del giornalismo.
Oggi al centro dell’attenzione è il fantasy “Game Of Thrones” (Il Trono di spade) con le sue abili “sexplenations”, spiegazioni contestuali durante l’atto sessuale tra due protagonisti. Oppure il politico Borgen, dalla fertile Danimarca. I serial vengono ora già scritti per il “binging”, sapendo che chi li seguirà non si limiterà ad attendere una settimana, prima di vedere l’episodio successivo, ma s’ingurgiterà 4 o 5 episodi da 50 minuti tutti di fila, oppure, come fanno molti, si riempirà il weekend con 12 o 13 episodi di una serie.
Da Hill Street Blues dell’antichità seriale a The Wire, Lost, passando (a caso) per i Borgia, i Tudor, Rome e Downton Abbey (serialitá storica), ricordando Six Feet Under di quasi 13 anni fa e i fallimenti delle brutte copie come The Killing, serie morte in partenza: la serialità ha il sopravvento e batte il racconto racchiuso in 120 minuti.
Il cinema soffre, arranca già sforacchiato dai video-games e da scelte sbagliate e a volte disperate. Solo chi torna alle radici, chi osa essere inattuale, rallentando ed espandendo il tempo, innescando fantasia ed emozioni sopravvive creando film che incidono.
Ma non è una questione limitata alle arti visive. Eragon e la serie di Christopher Paolini, che ricalca la Shannara di Terry Brooks, sono libri che vendono forse non come Harry Potter (altra serie) ma sembrano sopravvivere altrettanto a lungo sugli scaffali di biblioteche e librerie. Qui non c’è crisi di lettori. Quando ci eravamo convinti che i social network e il trasferimento delle notizie su Internet stessero frantumando la nostra capacità d’attenzione, ecco che invece ci affezioniamo a personaggi che vogliamo restino con noi per giorni e giorni. E, per chi è più paziente, per mesi e anche anni.
Come James Gandolfini, con quel viso che ti ricorda un cugino affaticato e sempre pronto a un sorrisetto sciocco, ma che grazie agli sceneggiatori dei Soprano diventa simbolo della crisi dell’uomo contemporaneo schiacciato da troppe responsabilità (criminali e manageriali), da troppi traumi (anche infantili, affrontati con la psicanalista), ragazzotto bulimico e bugiardo: lato affascinante del male che ti seduce appunto con la sua familiarità.
Per questo, adesso che Gandolfini è morto, proprio a Roma, in viaggio verso la Sicilia per un festival (del cinema!) viene da ricordare la distorsione buffa e scurrile da italo-americano, che dava il nome al suo motoscafo degli orrori ormeggiato in un porto del New Jersey: “Stugots”.