Frettolosi aborigeni
“La terra deve prima esistere come concetto mentale.
Poi la si deve cantare.
Solo allora si può dire che esiste”
L’aborigeno Limpy è seduto a cassetta sulla jeep. Sembra abbia una crisi epilettica. Balbetta rapido, strabuzzando gli occhi guardando colline e fiumi della valle australiana. Arkady, alla guida, capisce cosa sta succedendo e rallenta da 40 km/h a 6 km/h, a passo d’uomo.
Limpy si tranquillizza e i suoi rantoli diventano il distico del Gatto Selvaggio che descrive con minuzia dettagli chiave del paesaggio, una delle vie del canto che mappano con parole il paesaggio australiano.
In occasione di un viaggio in Australia, ho ripreso in mano “Vie dei canti” di Bruce Chatwin, dopo 24 anni. Ne ho ritrovato tutto il fascino che ricordavo: l’idea stessa della via del canto è un’ode alla letteratura e alla nascita di un senso nella natura che ci circonda attraverso la descrizione che ne facciamo.
Questo è vero per tutte le espressioni della natura, anche quando si declina negli esseri umani. Mi fa pensare a quanti “aborigeni” attorno a noi blaterano parole senza senso vedendo la realtà scorrere troppo veloce, oppure al contrario penso a quanti, andando troppo in fretta, non riescono a descrivere e capire ciò che vedono.
Questo libro parla di deserto come patria, della lingua umana che nasce imitando il richiamo degli uccelli, della “vita errabonda che ristabilisce l’armonia originaria che esisteva una volta tra uomo e universo” (perché “dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva” Hölderlin in “Patmos”).
Quest’analisi dell’irrequietezza spiega che Abele era un nomadico guardiano di pecore ucciso dal fratello Caino, agricoltore stanziale, fabbro ferraio antenato dei maghi delle “nere arti della tecnologia.”
Le pecore che devastano il campo coltivato sono il pretesto per l’omicida.
Il vero movente è l’invidia che il prigioniero stanziale ha per chi è nomade.
(Pubblicato su “East”)