Privacy e cambiamenti climatici
Se Jonathan Safran Foer nel suo libro “Possiamo salvare il mondo prima di cena” invece di parlare della catastrofe climatica, trattasse delle minacce che insidiano le nostre democrazie nell’attuale società digitale dell’informazione, credo direbbe che la privacy e i rischi di una società della sorveglianza di massa e del controllo non sono una buona storia da raccontare.
La narrazione delle peggiori violazioni della nostra riservatezza e delle intollerabili intrusioni nella nostra vita privata ad opera dei Governi o delle grandi multinazionali tecnologiche – quelle raccontate da Snowden per intenderci o quelle che rivelano la costante e progressiva manipolazione algoritmica delle nostre vite – sono storie buone solo per la letteratura e per il cinema, per un altrove che sa di fantascienza e distopia, ma sono storie che non ci coinvolgono, che sembrano non toccare la nostra banale quotidianità. Non sono storie buone per suscitare passione e reazione.
Parlare di tutela della privacy, o meglio parlare del governo dei nostri dati personali costantemente memorizzati nella ineludibile digitalizzazione delle nostre vite è forse oggi ancor più complesso, difficile e noioso che parlare di climate change o di global warming.
I due temi, la tutela della privacy e quella dell’ambiente, hanno invero dinamiche assai simili nella percezione delle minacce che vi si annidano.
Come scrive Foer, anche chi, sensibile al tema, è rimasto scosso dalla visione di “Una scomoda verità” di Al Gore ed è consapevole dell’origine del continuo accavallarsi di emergenze -le piogge torrenziali, le alluvioni e le siccità- e non nega razionalmente l’urgenza e la cruciale importanza della posta in gioco, poi, nell’intimo, non crede: non crede di esser parte attiva di quella narrazione disastrosa, non sente l’urgenza di agire e in ogni caso o non sa che fare o non è disposto a rinunciare ad alcunché per un pericolo percepito come astratto e lontano.
Io son tra questi. Compio piccoli ed insignificanti gesti simbolici (la borraccia di metallo o qualche raro hamburger vegetale giusto per tentar di tacitarmi la coscienza sul consumo insensato di carne) ma so che il giudizio dei miei figli non mi vede affatto meno colpevole dei pochi che ancora oggi per ignoranza o interesse minimizzano l’emergenza e deridono Greta Thunberg ed i Gretini che si battono per azioni concrete.
Sul tema della privacy e della tutela dei dati, sebbene la posta in gioco non sia la sopravvivenza del pianeta ma solo -si fa per dire- la sopravvivenza delle società democratiche come oggi le conosciamo in occidente, con i valori di libertà e dignità che riempiono le nostre costituzioni, assistiamo ad una non dissimile dinamica.
Possiamo rimaner scossi e turbati dalla visione degli episodi di Black Mirror e cogliere il valore profetico della letteratura distopica del ‘900 citando -spesso senza averlo letto- Orwell, o ancora esser consapevoli e toccar con mano la costante e progressiva erosione di spazi di libertà scevri da controllo ad opera del soluzionismo tecnologico efficientista dei governi, ma facciamo fatica a cogliere la minaccia che si annida nella incontrollata e opaca ruminazione delle nostre vite digitali da parte del potere.
Non ci crediamo: non crediamo di esser parte attiva di quella narrazione distopica, non sentiamo l’urgenza di agire e in ogni caso o non sappiamo che fare o non siamo disposti a rinunciare alle meraviglie del digitale per un pericolo astratto e lontano, convinti di non aver mai nulla da nascondere (e qui non apro alcuna parentesi sull’insensatezza della frase, ché io ho qualcosa da nascondere).
Certo quelli più consapevoli possono compiere piccoli passi di igiene ambientale digitale: scegliere dispositivi e applicazioni rispettose della privacy, utilizzare adbloker, evitare di concedere l’accesso alla propria rubrica o al proprio microfono alla prima applicazione che ci fa giocare a Ruzzle (lo so, sono un boomer), ma son pannicelli, come la borraccia di metallo o l’hamburger vegetale una volta al mese.
È dai Governi che dobbiamo pretender consapevolezza, ché è un po’ comodo accusare il cittadino dei disastri!
Temo, non ne ho la certezza ma parliamone, che l’impatto “ambientale” di tali tecnologie sulle nostre democrazie sia rilevante e subdolo come lo furono il cemento, il petrolio o la plastica nel ‘900 per il pianeta: tutte cose queste utilissime che hanno migliorato le nostre vite, ma ora ne stiamo pagando un caro prezzo, senza ancora sapere se e come potremo raddrizzar la rotta.
È mancato, all’epoca, un governo di quelle tecnologie, una visione più ampia.
Il digitale crea nuove forme di potere abilmente celate dalla fascinazione per un’efficienza inedita che tutti subiamo, col miraggio di un’intelligenza artificiale che risolverà con i nostri dati, in automatico, tutti i problemi e le devianze del mondo.
Ma a quale il prezzo? Quale società stiamo creando? In quale ambiente sociale vivremo?
Gli ambientalisti già c’erano nel secolo scorso, ed i climatologi, i tanto amati tecnici, hanno rilasciato da decenni dati allarmanti sul clima, ma nessuno di loro aveva una buona storia: erano a tutto concedere anime belle contrarie al progresso ed al benessere.
Ci son voluti decenni ed evidenti disastri per veder il Green Deal al centro dei vertici internazionali dei governi a cui assistiamo in questi giorni.
E c’è voluta almeno una buona storia che mobilitasse le giovani generazioni; una storia, come scrive Foer, che generasse una ola in grado di far pressione nel mondo.
E non importa se Greta Thunberg sia vera o costruita a tavolino.
Digitate su Google “Claudette Colvin” e scoprirete che Rosa Parks non era affatto una esausta sartina che rifiutò di alzarsi dal posto riservato ai bianchi, ma un’attivista dei diritti civili che creò ad arte una buona storia, un’ottima storia.
Non so dire se le roboanti conferenze sul clima di questi giorni siano solo “bla bla bla” o se vi sarà finalmente un qualche risultato. Temo in ogni caso che sia tardi e che il tempo sia scaduto, ma ringrazio Greta Thunberg e i miei figli per la loro passione.
E la privacy?
Per ora chi ne parla non ha buone storie e non ha buona sorte.
Nella percezione comune la protezione dei dati personali (che erroneamente chiamiamo privacy) più che un diritto fondamentale appare un vuoto impiccio burocratico: banner odiosi sui siti e moduli incomprensibili.
I Burioni di turno sbeffeggiano tra gli applausi chi pone questi temi e disturba il guidatore: i “talebani della privacy”, le “vestali della privacy”, i “no-trax” sono assimilati ai complottisti che con posizioni anti-scientifiche e con la fisima della privacy non hanno capito il progresso o l’emergenza del momento, sia essa la pandemia (tracciamo tutti), l’endemica piaga dell’evasione fiscale (useremo solo moneta elettronica analizzando ogni dato disponibile), l’immigrazione (con dati biometrici e droni alle frontiere) o la delinquenza di strada (con CCTV e riconoscimento facciale in ogni via e androne delle nostre città).
Gli effetti collaterali inquinanti sui diritti fondamentali e sull’assetto delle nostre società segnalati dai climatologi della società sono al momento irrilevanti, anzi, ridicole fisime.
Non sembra esser questo il tempo di una ecologia del digitale. Siamo al cemento, alla plastica e al petrolio nel ‘900.
Ma se per capire le buone ragioni dei difensori della privacy aspetteremo di percepire concretamente gli effetti di un uso irresponsabile delle tecnologie digitali sulle nostre libertà, ci ritroveremo temo prima o poi impegnati, come per il clima, a risolvere un problema che non potrà più esser risolto.
Purtroppo io al momento non ho ancora trovato una buona storia da raccontare per la privacy, ma sono certo che, prima che sia tardi, tra le nuove generazioni qualcosa o qualcuno sarà in grado di innescare una ola.