Non si legifera sulla verità
Scriveva Calamandrei che la diatriba tra gli avvocati e la verità è antica come quella tra il diavolo e l’acqua santa. Sarà per questo che l’attuale deriva del dibattito sulla post-verità e sulle notizie false mi sconcerta e non intendo proprio ficcarmici se non con una banale considerazione giuridica che mi pare fondamentale per tutti coloro che in questi giorni si avventurano in fantasiose soluzioni legali per impedire la circolazione delle menzogne sui media, o meglio, sul web.
Nel nostro ordinamento la verità in sé non è mai oggetto di tutela. In campo penale non esiste un solo reato che ponga a fondamento della sanzione la lesione della verità in quanto tale.
L’affermazione può apparire azzardata se si pensa ai molti reati che hanno come presupposto la menzogna: i reati di falso o la falsa testimonianza, o, per esser più aderenti al tema, quella singolare fattispecie che a tutt’oggi vige in Italia che è la pubblicazione di notizie false, esagerate o tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico.
In realtà tutti i reati che hanno come presupposto la commissione di un falso ideologico non sanzionano la falsità in sé, la menzogna, e non tutelano affatto la verità, ma presidiano altri specifici e differenti beni giuridici che dalla falsità possono esser lesi.
Ad esempio, nella falsa testimonianza la menzogna del testimone non è sanzionata perché lede la verità ma perché mina il corretto esercizio dell’attività giurisdizionale.
Del pari, per sanzionare i falsi documentali o le false dichiarazioni, ci si è inventati un bene giuridico che non è la verità ma la pubblica fede. Concetto astratto e non immediatamente percepibile che ha poco a che vedere con la verità, ed è rappresentato dal particolare valore probatorio che ex lege viene conferito ad uno specifico atto o documento, per le qualità del dichiarante (ad esempio un notaio o un pubblico ufficiale) o per le particolari forme sacramentali che lo caratterizzano.
Non è la verità a esser tutelata dai reati di falso, tant’è che al primo anno di università si impara che il falso ideologico del privato in una scrittura privata, cioè la menzogna contenuta in un qualsivoglia scritto (web incluso) che non abbia particolari valenze probatorie prestabilite per legge, non è mai sanzionato.
L’ordinamento è indifferente alle nostre menzogne. E bene che così sia.
Anche la contravvenzione che sanziona la pubblicazione di notizie false, esagerate o tendenziose, che esiste a tutt’oggi nel codice penale del 1930 insieme ad altri reati figli di quell’epoca infausta –penso al “procurato allarme” o al “Disfattismo Politico” in tempo di guerra –, non sanziona le fakenews ma solo quelle notizie false, esagerate o tendenziose (termini che ben apprezziamo quotidianamente solo leggendo i titoli dei giornali) che siano in grado di turbare l’ordine pubblico. Le notizie “illegali” debbono costituire “un concreto ed effettivo stato di minaccia per l’ordine pubblico”. Si può discutere su cosa sia l’ordine pubblico, ma il bene leso non è la verità (o il buon giornalismo), ma appunto l’ordine pubblico.
Si potrebbero fare altri esempi, ma il concetto che mi preme sottolineare mi pare sia chiaro:
il diritto, negli ordinamenti democratici, si tiene ben alla larga dalla verità quale bene giuridico oggetto di tutela.
La ragione è intuitiva: più una comunità si avventura nella impervia strada verso la tutela della verità più decresce il suo tasso di libertà e si dirige inevitabilmente verso il baratro di un totalitarismo ideologico più o meno gentile.
Il dibattito sulle fakenews ha un suo valore sociologico e forse antropologico, e nella società dell’informazione saper distinguere tra un fatto e un’opinione e avere la capacità critica di cogliere l’autorevolezza di una fonte qualificata rispetto al chiacchiericcio, alla propaganda o alla rassicurante disinformazione sono fondamentali.
Sentire però politici, ministri e presidenti d’Authority che pensano di tutelare la verità espungendo la menzogna dai media (o solo da internet?) grazie a formule giuridiche, provvedimenti di legge, o peggio deleghe alle piattaforme della Silicon Valley mi pare inaccettabile e sconcertante.
Nel dibattito sulla disinformazione non si cerchino soluzioni in diritto, ché non si legifera sulla verità.
Quando Pilato chiede a Gesù cos’è la verità, capisce immediatamente di aver fatto una domanda stupida e inutile e se ne va senza aspettare risposta. Risposta che Gesù ovviamente non dà: era in corso un processo, mica stavano chiacchierando al bar o chattando sul web, lui e Pilato.