Il concorso esterno in associazione mafiosa e il caso Contrada
Provo a dare qualche informazione tecnica per comprendere la sentenza emessa dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nel caso Contrada. La questione è estremamente complessa in diritto (e mi scuso per la pesantezza di questo post), ma consente alcune riflessioni che prescindono dal caso concreto.
Il principio “nulla poena sine lege” previsto dall’art. 7 della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, per la cui violazione è stata condannata l’Italia, è il principio cardine del nostro sistema penale; è sancito all’art.25 della Costituzione e da esso discendono le principali garanzie del cittadino a fronte della pretesa punitiva della Stato.
Giusto per capire ciò di cui stiamo parlando:
– un fatto (una qualsiasi condotta od omissione) per esser considerato reato, e dunque foriero di galera, deve esser descritto e definito come tale da una legge;
-per legge si intende un atto normativo del parlamento, discusso e democraticamente approvato, e non una qualsiasi regola proveniente da una qualche pubblica amministrazione o la statuizione di una sentenza foss’anche di Cassazione;
– la legge deve esser in vigore prima del fatto stesso, ed il cittadino deve esser posto nella condizione di conoscere e comprendere chiaramente -dalla legge e non dalle sentenze- ciò che è lecito e ciò che non è considerato tale, e quali sono le conseguenze;
– dunque solo ciò che è descritto nella legge come reato può essere sanzionato con la galera: fatti anche gravi e devastanti per la comunità, se non sono previsti espressamente come reato in una legge, non sono sanzionabili penalmente. Vi ricordate il caso Eternith e l’assenza del reato di disastro ambientale di cui scrissi qui?.
Dal “nulla poena sine lege” discendono pertanto alcuni dei principi fondamentali del diritto penale (tassatività, frammentarietà, divieto di analogia), che potrebbero tutti esser riassunti nel fatto che le leggi penali dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) essere scritte in modo molto, ma molto chiaro. Un aneddoto che si racconta nelle Università inglesi è quello dell’uomo che in una giornata molto calda si immerge nudo nella fontana di Hyde Park, contravvenendo alla legge che sanziona penalmente coloro che “vestono” in modo indecente nel parco: poiché l’uomo non era affatto “vestito” ma nudo, non fu incriminato. E’ un paradosso, ma rende l’idea. I fatti di reato devono esser nella legge tassativamente “tipizzati”: termine orrendo ma tra legulei si parla di “tipizzazione” dei fatti e delle condotte.
Messi questi paletti, su cui sono stati scritti fiumi di parole in dottrina e nei tribunali, per capire tecnicamente la vicenda Contrada ed il dibattito sul concorso esterno in associazione mafiosa, è necessario aver chiari anche alcuni concetti legati al concorso di persone nel reato.
Le norme del codice che regolano il concorso di persone nel reato servono a rendere punibili condotte che apparentemente non sono descritte nei singoli reati, e dunque, per quanto appena detto, non sarebbero punibili. Faccio un esempio: pensiamo al ruolo del palo nel furto in banca, quello della banda dell’Ortica, che si limita a scrutare nella notte mentre il complice ruba. Il palo non commette nessun fatto “tipico” descritto nel reato di furto. Con le norme sul concorso di persone, sulla base di tassative regole generali, è possibile “collegare” più azioni apparentemente non-illecite ad un fatto tipico di reato, così che la giusta punizione possa cogliere anche i soggetti che non si sporcano le mani (mandanti,basisti ecc.). Le norme sul concorso hanno dunque la fondamentale funzione di ampliare la responsabilità e render “tipiche”, e dunque sanzionabili, condotte che apparentemente non rientrano nella norma.
Ora, per rispettare il principio di legalità, le norme sul concorso debbono esser applicate con cautela e da sempre, da prima che il reato di associazione di tipo mafioso fosse introdotto, si dubita della loro applicabilità ai reati associativi. Con tali delitti, detti a concorso necessario (dalla banda armata all’associazione a delinquere, sino alla più recente associazione di tipo mafioso), il legislatore di fatto sanziona come reato il concorso stesso: l’organizzazione e la partecipazione ad una associazione che intenda delinquere non è altro che un concorso stabile, finalizzato a commettere più reati, che viene sanzionato in sé per l’allarme sociale che suscita indipendentemente dai crimini programmati. Applicare le norme sul concorso a questi reati che in pratica già sanzionano un concorso, significa cercare di ampliare la punibilità oltre la volontà del legislatore. Il concorso esterno nell’associazione a delinquere è da sempre oggetto di tecnicissime disquisizioni tra giuristi; coloro che ne avversano l’esistenza lamentano proprio la violazione del principio di legaltà, ovvero del “nulla poena sine lege” da cui siamo partiti. Il confine tra il concorrente interno, l’associato a delinquere, ed il concorrente esterno diventa labile ed incerto, non sufficientemente tipizzato e frutto di interpretazione e diviene difficile cogliere il limite tra lecito ed illecito nei rapporti dell’estraneo con gli associati.
Il problema del concorso esterno all’associazione a delinquere lascia i testi di diritto e le disquisizioni accademiche e sale agli onori della cronaca a partire dal 1982, anno in cui il legislatore introduce finalmente il reato di associazione di tipo mafioso. Da subito le Procure si accorgono che, al di là dei mafiosi, il problema nella lotta al crimine organizzato sono le connivenze e le contiguità proprie dell’imprenditoria e, ahi noi, della politica: tutta gente per bene, che con la mafia fa affari ed ha contatti, ma senza sporcarsi le mani. Quella condotta non è sanzionata da alcuno specifico reato, e l’unica possibilità di sanzione è infilarsi nel discusso “concorso esterno”, per cercar di “tipizzare” e sanzionare condotte oggettivamente intollerabili.
Rispettare il principio di legalità per la politica e per il legislatore sarebbe stato piuttosto semplice (al netto delle difficoltà insite nella redazione di un reato comunque complesso).
“Chiunque, pur non facendo parte di una associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis, fornisce consapevolmente e volontariamente un contributo al conseguimento dei fini dell’associazione, ovvero alla sua conservazione e stabilità è punito con…”
In parlamento di proposte così ce ne sono da anni, ma evidentemente vi erano affari più urgenti, ed il problema della connivenza con la mafia non pare esser a tutt’oggi una priorità.
Alle Procure non restò (e non resta) altra via che la discussa e tortuosa applicazione del concorso eventuale di persone nel reato di associazione, il controverso concorso esterno.
La Corte di Cassazione oscillò dal 1987 al 1994, come raccontano i giudici di Strasburgo nella sentenza Contrada, e poi ancora negli anni successivi, combattuta tra le ferree garanzie costituzionali derivanti dal “nulla poena sine lege” e la necessità di dar concreta risposta repressiva a condotte devastanti altrimenti impunite. Con la prima sentenza delle Sezioni Unite del 1994, con un pregevole sforzo interpretativo, l’organo massimo opta per la seconda via: è ammissibile il concorso esterno nell’associazione mafiosa. Non è che in quella data si sia creato un nuovo reato. Le norme applicate sono quelle del concorso di persone del 1930 e il reato di associazione di tipo mafioso introdotto nel 1982, ed ovviamente nessun giudice, grazie a Dio, può creare nuovi reati: semplicemente le Sezioni Unite dicono ai P.M. “tranquilli, la vostra interpretazione reggerà in Cassazione”. Ed è interpretazione che vale per il prima e per il dopo, perché le norme sempre quelle sono.
Ora la Corte di Strasburgo emette una sentenza di condanna all’Italia che pare attribuire alla Cassazione ed alla Sentenza del 1994 una sorta di potere legislativo, con la creazione ex nunc di un nuovo reato, inapplicabile al condannato Contrada il cui concorso esterno si dipana dal 1977 al 1988. Sembra di capire che per la Corte dei Diritti dell’uomo, i dubbi, anche della giurisprudenza, sull’ammissibilità del concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso avrebbero determinato una scusabile ignoranza della legge penale, che avrebbe potuto/dovuto imporre l’assoluzione del condannato.
La Sentenza, indubbiamente corretta nella sostanza, presenta alcuni aspetti tecnicamente discutibili, ma il messaggio che personalmente ricavo dalla vicenda è uno solo: l’Italia ha violato un principio cardine del diritto penale perché il legislatore, unico in grado di dar corpo al “nulla poena sine lege”, non è stato in grado in 30 anni di redigere una norma fondamentale per la lotta alla criminalità organizzata. Ci hanno pensato i giudici, con l’ennesima supplenza, che rischia di apparire una inaccettabile invasione di campo, attestata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Stupisce che nessuno, né al Governo né in Parlamento abbia colto lo schiaffo di questa sentenza.