La verità e il verdetto
Filippo Facci ha scritto un pezzo sul caso Cucchi che in parte condivido, ed ha sottolineato in un tweet la differenza tra verità e verità giudiziaria.
Il tema travalica la terribile vicenda: il rapporto tra verità e verdetto emerge evidente ogni qual volta assistiamo interdetti ad assoluzioni o condanne che contrastano con le verità che costruiamo sulla base della narrazione pubblica dei fatti.
Questo accade perchè nella nostra cultura la verità e la sua definizione in sé come concetto è da sempre intimamente legata alla giurisdizione, in particolare al processo penale.
Uno dei dialoghi più affascinanti dei vangeli è quello tra Pilato e Gesù proprio nel corso del processo. Durante il faticoso interrogatorio – faticoso perché in effetti mancava un chiaro capo di imputazione ed ancora oggi è difficile difendersi se l’accusa è pasticciata – quando Gesù si infila nella “verità”, Pilato pone la domanda fatidica «Cos’è la verità?» Gesù non risponde, conscio dell’inutilità dello sforzo, ma è interessante il fatto che Pilato neppure attenda una risposta e dopo aver posto la domanda immediatamente si giri e se ne vada (Giovanni 18,38). La risposta sarebbe stata del tutto irrilevante ai fini del processo.
Irrilevante perchè in allora, e per noi oggi, la verità è un concetto giuridico prima che ontologico. Vero è ciò che può esser verificato e detto vero, nel ver-detto appunto. La radice “ver” del termine latino veritas, di origine indogermanica, rimanda al concetto di barriera, o muro: muro che è diritto, come la legge (il diritto) che deve riparare i torti, che appunto sono (s)torti. Semanticamente la nostra “verità” è assai distante dalla alétheia greca, che era il disvelamento e la scoperta (lo racconta Heidegger).
Ancora oggi noi culturalmente rimettiamo la verità, tutte le verità, alla giurisdizione, con inevitabili effetti collaterali.
Ai processi ed alla magistratura deleghiamo spesso verità storiche o politiche che difficilmente possono trovare adeguato giudizio nelle aule dei tribunali penali, e trasformiamo i processi (talvolta con la complicità più o meno consapevole degli inquirenti) in velleitari giudizi sulla storia di questo paese. E quando i limiti e le garanzie del processo o la frammentarietà del diritto penale portano all’assoluzione, noi giustamente ci indigniamo, traditi nelle aspettative di verità.
E ancora, dietro il concetto tutto giuridico della presunzione di innocenza, non applichiamo al politico corrotto alcuna sanzione sociale, perché ricerchiamo il ver(o)detto finale. Attendiamo come rassicurante rivelazione la barriera del giudicato del terzo grado di giudizio, incapaci di distinguere la verità processuale da quella storica o da quella politica, o dalla verità vera, ammesso che quest’ultima esista oggettivamente e che sia possibile svelarla. Al di là del verdetto.