Zio Paperone e il copyright sul calcio
Su Topolino n°2570 c’è una storia dal titolo Zio Paperone e la preziosa palla di caucciù. Il nostro deve aggiudicarsi i diritti per il campionato di calcio paperopolese sfidando ovviamente l’odiato rivale Rockerduck. Costui ha in serbo un colpo basso. Un suo antenato, tal Rocky Duck, a metà ottocento, avrebbe inventato il gioco del calcio scrivendone le regole.
Con una rappresentazione dei diritti di copyright assai meno fantasiosa di quanto si possa pensare (i bis-nipoti della J. K. Rowling vedranno spirare i diritti sul maghetto solo sul finire del XXII secolo, anno più anno meno), il perfido magnate vanta un’esclusiva su tutto il calcio mondiale; cosa che farà di lui il papero più ricco del mondo. Zio Paperone (e il gioco del calcio) si salveranno grazie a Paperino e ai fidi nipotini che scoveranno una palla di caucciù assai più vecchia che reca impresse le medesime regole e che ovviamente apparteneva ad un loro antenato Paulinho Paperones (i nomi su Topolino sono sempre meravigliosi).
A sorpresa l’avido Paperone rinuncia ai diritti di copyright sul calcio guadagnando in immagine e popolarità:
“il calcio è uno sport troppo bello ed è giusto che appartenga a tutti senza limitazioni“.
Probabilmente sa che una privativa sul calcio non esiste e soprattutto sarebbe intutelabile sulle strade e nei cortili del mondo. Ovviamente si tiene i diritti di trasmissione audiovisiva … mica che la Disney poteva esagerare sui “commons”. Non sa, Paperone, che anche lì però avrà qualche problema di tutela, sulle strade e nei cortili del web.
Il diritto d’autore teoricamente con il calcio non c’entra nulla. Una partita di calcio, in sé, non è un’opera dell’ingegno e non è tutelabile. E questo l’hanno capito, oltre a Zio Paperone, (quasi) tutti i giudici del mondo, dall’America alla nostra Europa calciofila. Come tutte le gare sportive, non è il frutto pensato e creato da un “autore” (neanche collettivo), ma il risultato più o meno casuale della combinazione di regole, tattica e gesti atletici dei giocatori. Perchè se riesco a copiare il gioco del Real Madrid non è che violo il copyright: semplicemente è probabile che io vinca la partita. Tutelare il calcio come opera dell’ingegno, o anche solo una partita in sé con il copyright, sarebbe impossibile e soprattutto non genererebbe alcun beneficio né per lo sport calcio, né per la collettività.
Zio Paperone sa che rinunciando al copyright sul calcio non rinuncia a nulla di giuridicamente tutelabile.
Il copyright però rientra dalla finestra con i famosi diritti audiovisivi sportivi che creano una specie di quasi-copyright. Gli organizzatori di una partita, o di un qualsiasi evento sportivo (pensiamo, ad esempio, alle Olimpiadi), hanno il diritto di decidere chi può riprenderla e diffonderla e chi no: si creano in tal modo delle esclusive in capo a chi acquista il diritto sulle immagini ed ovviamente quelle esclusive possono/debbono esser tutelate nell’iper-condivisione del web.
Il punto è che i diritti audiovisivi sportivi sono solo lontani parenti con il copyright e il diritto d’autore: alla base, come detto, non vi è alcun nobile diritto dell’ingegno da incentivare e tutelare a beneficio di innovazione, creatività e cultura. Anche a voler riconoscere allo sport una tutela costituzionale, quale diritto fondamentale ex articolo 2 della Costituzione o quale mezzo di promozione della salute ex articolo 32 della Costituzione, per giustificare una funzione e un’utilità sociale “alta” dei diritti audiovisivi sportivi che li avvicini ai cugini diritti d’autore, bisognerebbe ipotizzare che per metafisica proprietà transitiva la sana attività agonistica di atleti super pagati si propaghi attraverso gli schermi ai placidi ospiti dei divani del salotto.
Personalmente fatico a individuare un interesse sociale diffuso che giustifichi un’equiparazione dei diritti audiovisivi sportivi al diritto d’autore, così da consentire una compressione nella libera circolazione di quei contenuti (le partite di calcio) con modalità pari (se non superiore) a quella, già intollerabile, prevista per le opere dell’ingegno. Dal mio punto di vista (ma sono pronto a ricredermi), i diritti audiovisivi sportivi rappresentano un mero privilegio commerciale, giustificabile in una qualche misura al solo scopo di tutelare l’investimento e garantire una corretta remunerazione sia degli organizzatori dell’evento sia delle emittenti che li acquistano. Nulla di più. Che poi nel caso di Zio Paperone i due soggetti coincidono: come noto è proprietario sia di una squadra di calcio che di un’emittente televisiva. Zio Paperone, a Paperopoli.
In Italia, la legge del 2008, che per quanto a me noto non ha pari nel panorama mondiale, prevede che per 50 anni (lo ridico: 50 anni!) le immagini di una partita siano indisponibili e inutilizzabili da chiunque, a eccezione dei titolari. Forse un’esclusiva di qualche ora sarebbe bastata per tutelare una corretta remunerazione. Poiché poi l’oggetto di quelle privative non è un’opera dell’ingegno, ma un evento, un mero accadimento fattuale che è tanto più remunerativo quanto più è oggetto di interesse da parte del pubblico, per tutelare la privatizzazione di quel contenuto audiovisivo si è necessariamente compresso il diritto di cronaca, critica e informazione in modo assai stringente; con modalità assai più rigorose rispetto alle eccezioni già risicate previste per le più nobili opere dell’ingegno.
Di fatto per la legge del 2008 il diritto di cronaca audiovisivo del calcio su internet non è “uti cives” ma riservato agli operatori della comunicazione, nei telegiornali e nei notiziari, «non deve essere superiore a 90 secondi per ciascuna giornata» e «per un massimo di 3 ore consecutive a partire dalle ore 24:00 della conclusione della giornata». Tanto per far capire il livello di protezione, «il diritto di cronaca esercitato per mezzo della telefonia mobile, fruibile dagli utenti senza oneri aggiuntivi, è limitato a un fotogramma a corredo della notizia del goal o del risultato finale di ciascun evento». L’unica attività che per la legge italiana non pregiudica lo sfruttamento “normale” dei diritti audiovisivi è «la comunicazione al pubblico, scritta o sonora, anche in tempo reale, della sola notizia del risultato sportivo e dei suoi aggiornamenti, adeguatamente intervallati». Bontà loro, si può dire come sta andando la partita, con adeguati intervalli. Se tra trent’anni volessi usare in rete un frammento di una qualsiasi partita del campionato 2009/2010 per una qualsiasi finalità, non potrei farlo senza pagare la Lega Calcio e ovviamente anche l’emittente che l’ha ripresa e diffusa.
Può darsi che io non colga i benefici che il calcio, inteso come sport, riceve dalla complicata macchina da soldi costruita intorno alle partite, e forse gli appassionati mi spiegheranno che i calendari dettati dalle esigenze televisive, gli ingaggi milionari, ed in generale il vorticoso giro di soldi generato dalle privative sulle immagini del calcio è fondamentale, e che a beneficiarne non sono solo quelle due o tre industrie dell’intrattenimento, ma l’intera comunità. Spiegatemelo, perché ciò che io rilevo al momento è l’ennesima proterva tutela di un diritto meramente patrimoniale di pochi a discapito di diritti e libertà di molti. Se diritti di quasi-copyright come i diritti audiovisivi sportivi sono considerati dalla legge per 50 anni prevalenti su diritti fondamentali quali il diritto di cronaca, informazione e in generale sulla libertà di espressione nelle nuove declinazioni che internet ha permesso, allora non deve stupire che un tribunale possa emettere un’ordinanza come quella toccata al Post .
Ciò che è certo è che a Paperopoli l’investimento di Paperone sarà meno remunerativo. Negli Stati Uniti, che pure sono talebani nella difesa del loro copyright all’estero, non solo nessun giudice si permetterebbe mai di inibire a una testata giornalistica di scrivere o comunicare un’informazione in sé vera, solo perché potenzialmente utilizzabile per fruire di un contenuto illecito (e per la verità nel caso del Post manco quello), ma al sito Rojadirecta (absit injuria verbis) il Dipartimento di Giustizia ha restituito i domini .org e .com improvvidamente sequestrati. Con tante scuse. Il link non costituisce violazione del copyright e le piattaforme di condivisione sono fondamentali intermediari di una nuova economia, che in Italia, mettiamoci l’anima in pace, non vedrà mai la luce. Amen.
Son curioso di vedere a che punto saremo nella prossima classifica di Reporters sans frontières sulla libertà di espressione.