Google/Vividown: un pensiero personale
È stato un bel processo. Di quelli che dietro al caso di cui discuti ed oltre il dramma sempre vero della persona che innocente si vede condannare in nome di un intero popolo, si scorgono principi forti e questioni importanti. Perchè il caso Google/Vividown nascondeva molti e differenti mondi nelle pieghe delle complesse normative che toccano la rete.
È trascorso più di un quarto di secolo da quando la comunità di computer ethics dibatteva se la rivoluzione informatica avrebbe comportato soltanto “nuove versioni di problemi e dilemmi morali standard” (Johnson 1985), oppure avrebbe richiesto categorie inedite e un punto di vista più consono alle prospettive aperte dalla “logica malleabilità” dei computer (Moor 1985).
Poi è arrivato il Web e quella rete di computer, cavi e router si è popolata di gente e ci siam trovati connessi ovunque, in perenne comunicazione con il mondo intero. Ed è cambiato tutto.
E ciò che non è ancora cambiato, cambierà.
E può esser difficile capire e immaginare quali ricadute ha e avrà il fatto che ognuno di noi, con un click, possa diffondere a miliardi di persone un pensiero, un’idea, un’immagine o un video; comunque un pezzo della nostra vita e della nostra infosfera. Bella o brutta che sia.
E’ cambiata e cambierà la percezione che abbiamo di noi, la percezione del mondo e del nostro tempo.
Ed il diritto arranca, cerca di scomporre e ricondurre i fatti alle regole di sempre, senza trovare però risposte adeguate nel groviglio di leggi che senza frontiere ormai si mischiano tra Stati e continenti.
E allora devi salire di livello. Non puoi piegare realtà nuove a regole vecchie. Devi andare ai fondamentali, alla base. Ai principi condivisi del vivere sociale. Ai diritti fondamentali.
E se ti trovi a difendere una società americana che nel dna ha il primo emendamento della loro costituzione (la libertà di parola e stampa), devi calcolare che il tuo processo è in Europa, dove al primo posto della Carta dei diritti fondamentali c’è invece la dignità della persona.
Ed il processo diventa un processo di questo tempo, un processo che nasce e si risolve nella rivoluzione dell’informazione che stiamo vivendo.
E devi spiegare in aula che quella regola, che prevede l’irresponsabilità dell’intermediario della comunicazione non è un baco di sistema, un vuoto normativo nella “prateria senza regole di internet” -come scrisse il Giudice che condannò in primo grado- ma il corretto equilibrio di diritti fondamentali che sulla rete hanno nuove declinazioni: per difendere un futuro potenzialmente straordinario.
Google aveva ragione. La condanna dei suoi dipendenti era sbagliata, fuori dal tempo e dalle nuove forme di diritti consolidati.
La Corte lo ha capito.
E’ stato un bel processo. Mi illudo di aver difeso un pezzetto di futuro.