Abolire gli avvocati?
Il Consiglio Nazionale Forense ha approvato il Manifesto Unitario dell’Avvocatura contro le liberalizzazioni del governo e varato una mobilitazione della categoria. Come i taxisti, i farmacisti, notai o benzinai: tutti a difendere un orto sempre più parco di frutti, ma pur sempre cintato. È questa l’inevitabile considerazione. Poiché appartengo alla categoria, mal tollero di passare per l’ennesimo difensore di residuati fossili di antiche corporazioni.
Che poi, non è che noi avvocati ci si debba mobilitare tanto: abbiamo un esercito di parlamentari che se indossano la toga al momento di votare, affossano qualsiasi riforma sgradita. Una ragionata ostilità contro l’avvocatura trova buone e facili argomentazioni. Nella professione legale regole apparentemente anacronistiche bloccano la strada a giovani capaci di affrontare con il piglio dei nativi digitali le vere sfide della competizione globale e della nuova società dell’informazione. Oggi a ventotto anni se ti va bene sei un praticante mal pagato o, se sei proprio bravo, fai l’avvocato presso qualche studio che ti fa trottare da mattino a sera per ottocento euro. Entri allora il mercato e la concorrenza, e si abroghino i minimi tariffari: chi non si adegua lasci il campo.
Che poi, non è che le liberalizzazioni possano modificare più di tanto l’attuale situazione, almeno per gli avvocati. Siamo circa 210 mila in Italia: più di 4 avvocati ogni 1000 abitanti, minorenni e infanti inclusi. A Torino, dove lavoro, c’è un avvocato ogni 150 abitanti, e non è che tutti e 150 vanno dall’avvocato. A Roma è peggio. Le tariffe? Il problema per chi inizia la professione (e non solo) è trovare i clienti e farsi pagare, non “quanto” farsi pagare.
Che poi in questa smania di deregolamentazione della professione non è che si riesca tanto a scorgere i vantaggi per i cittadini e in generale per l’’economia italiana. Se invece di 210 mila fossimo 400 mila, con in più le grandi società di capitali che finanziano “law firm” piene di aggressivi avvodipendenti, siamo sicuri che il pil italiano crescerebbe o che si ridurrebbero i costi per gli utenti della giustizia?
Mi viene in mente il giudice che mentre ascolta l’arringa dell’avvocato pensa: «una causetta da nulla, che si sbrigherebbe in cinque minuti, si gonfia, se è affidata al fiato degli avvocati, peggio di un pallon volante. Se non ci fossero gli avvocati ci sarebbero meno cause. Perché i processi li metton su gli avvocati, coi loro cavilli e le loro bugie. E non ci sarebbero più nel processo le sottigliezze escogitate dai legulei: non ci sarebbero più questioni di competenza, né appelli, né ricorsi in cassazione. Se non ci fossero gli avvocati la giustizia si svolgerebbe alla buona… celermente».
Qualcuno il pensiero l’avrà fatto: più che liberalizzarla, la professione andrebbe abolita. 400 mila avvocati che cosa faranno, se non cause su cause? Per pochi euro si potranno “adire le vie legali”, poi si vedrà; con buona pace della già sofferente macchina giustizia. Chi frequenta i tribunali vede denunce che generano processi il cui esito dovrebbe condurre in galera non l’imputato o il denunciante, ma il legale. Il lavoro dell’avvocato genera per lo Stato dei costi. Se si ragiona in termini meramente economici, di concorrenza e mercato, la professione non va affatto liberalizzata: al più va abolita. Oppure rigidamente regolamentata.
E qui sta il punto.
In epoca fascista il problema degli avvocati era apparentemente l’opposto di oggi: alla fine degli anni ’30 il regime voleva di fatto cancellare la libera professione, per statalizzarla. L’avvocato, o meglio la difesa del cittadino nel processo, doveva esser rappresentata da un funzionario dello Stato, al pari del Giudice (e del Pubblico Ministero oggi). Un bel vantaggio per uno stato autoritario.
A opporsi in quel tempo difficile alle velleità del governo fascista fu tra gli altri Pietro Calamandrei. Nella sua prefazione all’edizione del 1938 di “Elogio dei giudici scritto da un avvocato” (libro straordinario sul quale tutti i legali dovrebbero sostenere un esame) egli spiega da par suo quali valori essenziali per la giustizia (e la democrazia) si celino dietro la professione di avvocato e quanto il concetto di indipendenza sia fondamentale.
Ebbene, che si sia a favore o fieramente contrari alle modeste proposte di deregolamentazione del governo Monti, è sorprendente come le ragioni di Calamandrei siano straordinariamente attuali. Oggi a riformar l’avvocatura non è un regime autoritario di natura politica, ma, con modalità contraria, la miope fede nel mercato e nella concorrenza. E sì che mercato e concorrenza non stanno dando il meglio di sè.
Leggendo le parole di Calamandrei scritte nel 1938 si comprende come sia una iattura per la giustizia, e non per gli avvocati, tanto il tentativo di trasformare l’avvocato in un burocrate statale, quanto la miope visione di una professione legata unicamente al profitto, con un dichiarato asservimento a logiche imprenditoriali, di mercato e di concorrenza.
Scriverebbe oggi Pietro Calamandrei: il tramite necessario attraverso il quale la giustizia viene a contatto con i cittadini è, prima che il giudice, l’avvocato. Chi chiede giustizia e chi subisce ingiustizia, può non conoscere il nome del proprio giudice, ma deve conoscere il proprio avvocato, e aver fede in lui come in un amico liberamente scelto. E chi volesse trasformar l’avvocato in un imprenditore votato esclusivamente al profitto e sottoposto alle regole del mercato, con ciò non soltanto chiuderebbe il varco alla comprensione umana che segue la libera elezione delle amicizie, ma chiuderebbe altresì la sola porta attraverso la quale può passare la fiducia nella giustizia dello Stato. Perchè una delle virtù dell’avvocato, diceva ancora Calamandrei, è la tendenza, inversa a quella dei giudici, “ad ammollire sotto la fiamma del sentimento il duro metallo delle leggi, per meglio formarle sulla viva realtà umana”.
Ma questa virtù, al di là della tecnica e della preparazione, dell’efficienza e della convenienza economica, è data solo dalla passione, dalla generosa lotta per il giusto e dalla ribellione ad ogni soperchieria. Dubito che queste caratteristiche, pur presenti, siano oggi chiaramente riconoscibili nell’avvocatura, e di ciò siamo noi avvocati i primi responsabili: ma non vi è dubbio che la blanda deregolamentazione dell’avvocatura proposta dal governo null’altro sia se non una certificazione al ribasso. A motivare gli interventi vi è solo la salvifica autorità del mercato e della concorrenza: troppo poco per legittimare interventi su di un ingranaggio fondamentale della giustizia.
Solo là dove gli avvocati sono indipendenti, i giudici sono imparziali; solo là dove gli avvocati sono rispettati, sono onorati i giudici (ancora Calamandrei). Non credo sia necessario gridare all’attentato alla professione per i provvedimenti annunciati, ma è certo che dove si riduce la professione di avvocato a mero agente economico mosso da logiche imprenditoriali – come a mero burocrate dello Stato – lì la missione di render giustizia sarà più ardua, se non impossibile. E con ciò passerò inevitabilmente come il difensore di anacronistici privilegi.