I postini, il copyright e la guerra dei soldi
Immaginiamo che internet non sia ancora stato inventato e che per comunicare si usi ancora la posta. Immaginiamo che un editore o la SIAE chieda a un giudice di obbligare i postini ad un controllo capillare di tutte le buste ed i pacchi spediti per vedere se per caso dentro ci sono le fotocopie illegali di libri e spartiti musicali protetti da copyright: se le trovano, il pacco deve esser distrutto. Immaginiamo che tale richiesta sia stata accolta dal giudice ma i postini, per ragioni esclusivamente economiche ed organizzative, rifiutino di adeguarsi. A causa dei controlli gli uffici sono intasati, la consegna è ritardata, il servizio diventa inefficiente, e anche ad assumere nuovi postini, l’organizzazione della distribuzione è ingestibile. Hanno ragione i postini.
Non possono esser obbligati a lavorare il doppio o a spender soldi per assumere aiutanti a beneficio esclusivo di editori ed autori, mandando per giunta in crisi l’intero sistema di distribuzione della posta. I titolari del copyright hanno tutto il diritto di vendere e lucrare sulle loro opere, ma non possono pretendere di accollare a terzi i costi e la responsabilità della tutela dei loro interessi. Esistono poi ragioni di riservatezza degli utenti del servizio postale. Nessuno può guardare ciò che spedisco e comunico, a meno che io non sia già indagato dalla magistratura per qualche serio ed intollerabile delitto.
In ultimo, non va affatto bene che la distruzione del pacco sia decisa dai postini. Con tutto il rispetto per questa delicata professione, è meglio che la legalità o l’illegalità di una comunicazione tra privati sia decisa da un giudice, caso per caso, sulla base di una legge chiara.
Con le dovute proporzioni, sostituendo internet alla posta e i fornitori di accesso ai postini, è questa in sostanza la decisione presa dalla Corte di giustizia europea la scorsa settimana nella vicenda SABAM/SCARLET. Nessuno, neppure il più avido e intransigente tra i titolari di copyright, poteva immaginare diversa decisione. Tant’è che da tempo la guerra alla condivisione mira ad utilizzare armi più sottili.
L’ultima “invenzione” dell’industria dei contenuti è quella di “isolare” finanziariamente i siti web che consentono la condivisione di opere protette. Il sistema degli annunci pubblicitari e i micro pagamenti in rete sono gestiti da pochi intermediari ben identificabili. Se convinco o obbligo tali soggetti a non metter banner ed a non fornire sistemi di pagamento sui siti ritenuti “pirata”, segnalati in apposita black list, questi moriranno di morte naturale. È la grande novità contenuta nel provvedimento SOPA – Stop Piracy On Line – in discussione al Congresso degli Stati Uniti, e pare esser questa la mossa annunciata venerdì scorso dalla HADOPI (Haute Autorité pour la diffusion des oeuvres et la protection des droits sur l’Internet) in Francia.
Tutti i siti che si basano sulle micro offerte degli utenti ovvero sulla pubblicità, dipendono di fatto dalle aziende di intermediazione finanziaria on line.
L’idea deve esser venuta all’industria del copyright dalla vicenda WikiLeaks. Il blocco finanziario deciso da Visa, MaterCard, Pay-Pal e pochi altri, ha ottenuto la sospensione delle pubblicazioni e di fatto dell’attività del discusso sito. Nessun Tribunale avrebbe potuto ottenere un simile risultato. Non in un paese come l’America che nel primo emendamento della sua costituzione consacra la libertà di espressione e stampa. Ma il soldo, si sa, val più dei principi.
Oggi è possibile donare con VISA all’Institute for Historical Review, che nega l’olocausto, ma non a Wikileaks. Comunque la si pensi su Assange o sull’olocausto, credo percepibile da chiunque una significativa limitazione di quel “diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici” che si legge dal 1948 all’art. 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Finirà come per i postini? Difficile dirlo. In questo caso la violazione dei diritti fondamentali è più sottile e sfumata. Inoltre la fluidità e la magmaticità della rete e la rapida evoluzione dei modelli di business rende poco prevedibili le possibilità concrete della nuova arma sfoderata dai titolari del copyright. Morto Napster, nacque Kazaa. Attaccato Kazaa furono sviluppati eMule e BitTorrent. Bloccati i server traccia di BitTorrent sono nati i magnet link che superano l’esigenza di un traker per la condivisione.
Non sarà che con i BitCoin, la valuta P2P digitale, ci si appresta ad aggirare i blocchi finanziari?
Visto che ho immaginato un mondo senza internet e con i postini, fatemi immaginare un altro scenario. Immaginiamo di sospendere la guerra alla condivisione. Immaginiamo di riconoscere a chiunque il diritto di immettere in rete senza scopo di lucro le opere protette dopo un breve periodo dalla prima pubblicazione (18 mesi?); di poterle sin da subito rimixare ed elaborare; immaginiamo di obbligare i detentori dei diritti a predisporre una valida ed equa offerta legale, a pagamento, per tutti i contenuti professionali, su piattaforme aperte ed interoperabili, prevedendo che almeno un terzo dei proventi di tale offerta venga distribuita direttamente agli autori. Proviamo per un anno. Vediamo come cresce l’industria del fair use, quanto quella del copyright, e quante nuove opere vengono prodotte. Calcoliamo quanto incassano gli autori. Scommetto con chiunque che tutti guadagnerebbero molto, ma molto di più: senza contare i costi collettivi dell’insensata lotta alla condivisione.