La TV non è il web
Il web non è la TV: con questo slogan era stato accolto sulla rete il decreto Romani che attuava, con qualche eccesso tutto italiano, la direttiva comunitaria sui servizi media audiovisivi. Il decreto mirava (e mira) in effetti ad estendere al web parte della stringente normativa che regola da tempo il mondo della televisione. Figlio più o meno legittimo del decreto Romani è il tanto vituperato regolamento sul diritto d’autore in rete attualmente in gestazione presso l’AGCom.
Regolamentare e dunque controllare i contenuti che internet diffonde così come si controllano le televisioni è il fine anche di coloro che fanno televisione. I vari players del settore soffrono infatti da alcuni anni una concorrenza che sino alla diffusione del web era ignota in un non-mercato ove pochi soggetti in posizione dominante governano verticalmente la diffusione dei beni informazionali, principalmente prodotti da loro o per loro. La moltiplicazione dei canali con l’avvio del digitale terrestre è stata assorbita nel non-mercato dell’etere senza particolari traumi all’ecosistema. L’offerta è solo apparentemente aumentata: gli attori e le tipologie di contenuti son sempre gli stessi.
Nel nostro paese, dove controllati e controllori coincidono, il settore manifesta da tempo sintomi patologici che paiono immuni alle terapie regolamentari dettate dall’Unione Europea. Solo il web pare inquietare, e concretamente sottrarre telespettatori e introiti pubblicitari. La frenetica frequentazione dei tribunali da parte di R.T.I.-Mediaset nei confronti di diversi fornitori di servizi audiovisivi in rete, da YouTube a Yhaoo a IOL, è significativa, ma destinata a certo insuccesso, al di là della vittoria in alcune piccole battaglie sul copyright, se solo si pensa all’offerta degli oltre 100 canali editoriali in arrivo su YouTube e al rilancio della Google TV
A ottobre i protagonisti della televisione, ovvero i broadcaster, i produttori e i pubblicitari si sono riuniti a Roma, ad Eurovisioni – XXV Festival Internazionale di cinema e televisione. Il tema di quest’anno, assai impegnativo, era La televisione scatenata? Digitale, Cinema, Televisione e Democrazia. Nella giornata di lunedì 17 a Villa Medici la protagonista è stata la “televisione ibrida”.
Le connect-TV sono le televisioni connesse ad internet, e sono terminali capaci, almeno in teoria, di visualizzare i tradizionali segnali unidirezionali dell’etere e interagire con i variegati pacchetti trasportati dalla rete internet. Se il web non è la TV, forse che la TV si fa web? No.
Dopo aver assistito alla presentazione dell’ultima e più evoluta piattaforma europea per le connect-TV, la HBBTV, ho capito che la televisione ibrida vuole sì utilizzare internet come nuovo canale, ma rifiuta caparbiamente ogni confronto con il web e con i nuovi intermediati della comunicazione audiovisiva. La TV ibrida consente di ricevere programmi e servizi via internet, offrendo all’utente una qualche interattività, ma i contenuti sono rigorosamente chiusi, limitati alle scelte editoriali dell’emittente. La convergenza tra i diversi media audiovisivi rimane allo stato solo apparente. D’altra parte i due mondi, internet e la televisione, sono geneticamente differenti e forse antropologicamente incompatibili.
La televisione, originariamente caratterizzata da scarsità di risorse e alti costi di accesso con inevitabili fallimenti delle regole del mercato con la progressiva assenza di reale concorrenza, necessita di stringenti regole sui contenuti a difesa del pluralismo, della correttezza e della auspicata diversificazione delle fonti, a fronte di un utente passivo, indistinto e massificato. Per questo richiede chiare responsabilità editoriali. Il broadcaster ha necessariamente una visione verticale della comunicazione. Il terminale, la nostra televisione, è di sua proprietà: per scelta o per legge appare solo ciò che l’emittente, sotto la propria responsabilità, decide possa apparire.
Il mondo di internet è all’opposto. Net-neutrality e net-freedom sono principi cardine e sono il frutto di consapevoli scelte tecniche nell’architettura della rete: l’iniziale assenza di regolamentazione pubblica ha permesso ad ogni computer connesso di esser potenzialmente un’emittente. I fornitori di servizi sono per lo più intermediari della comunicazione e operano in un mercato in cui la concorrenza è just a clik away. Per tutelare pluralismo concorrenza e diversificazione delle fonti nel web è sufficiente (si fa per dire) tutelare la neutralità della rete in ogni sua declinazione. Il fruitore non è uno spettatore passivo, ma è il responsabile del suo terminale. Anche il linguaggio comune appalesa l’assunto. Io guardo la televisione ma non guardo il computer. Si entra in internet, non si entra nella televisione.
Se queste sono le premesse, la convergenza delle piattaforme non potrà mai giungere dal mondo della televisione. Per i tradizionali broadcasters, il televisore, per quanto connesso, rimane il banale terminale che conosciamo. E questo nell’incontro svolto a Roma è emerso con chiarezza.
Nel corso del dibattito vi è stata una surreale ma significativa discussione sulla Google Tv, il cui motore di ricerca ovviamente adotta un ranking simile al web search: l’ordine dei canali proposti dipende da algoritmi, ed in definitiva, da gradimento e popolarità. Per il mondo della televisione questo è inconcepibile. Il riordino e la numerazione dei canali è compito dell’autorità, non del mercato. È questione quasi antropologica.
Chi è costretto a rispettare disposizioni ferree a tutela dei minori e di un pubblico irresponsabile – le interruzioni e i tetti pubblicitari, i palinsesti, gli orari e gli avvisi promozionali – o deve sottostare a folli limitazioni come l’intollerabile “par condicio elettorale”, è indotto a vedere negli intemediari della comunicazione e nei variegati fornitori di servizi in rete solo pirati e avventurieri svincolati da ogni norma e da ogni regola. Ai loro occhi il web è un concorrente sleale.
In realtà le norme e le regole in internet ci sono, ma sono invertite. La responsabilità è di chi possiede il controllo del mezzo, e il controllo in rete è e deve rimanere anche in mano all’utente. L’intelligenza, ovvero l’innovazione e la creatività, al pari della conseguente responsabilità, in internet risiedono nelle terminazioni periferiche; al centro, o al vertice, non deve esserci altro che la neutrale trasmissione di tutti i dati in transito.
La responsabilità è nel terminale, ed è diffusa: i fornitori di contenuti siamo noi. È la conseguenza di una libertà che è divenuta diritto fondamentale nelle moderne democrazie. È questo il cambio di paradigma che non è ancora stato compreso appieno, neppure, o soprattutto, dalle autorità preposte alla vigilanza sulle reti di comunicazione elettronica. E questo inquieta.
La domanda provocatoriamente posta a Roma “perchè mai la televisione deve rispettare le stringenti regole dell’audiovisivo e internet fa quel che vuole sui medesimi contenuti” può legittimamente esser posta da un broadcaster che vede minati i propri proventi pubblicitari e la propria posizione nella diffusione dei contenuti audiovisivi, un tempo appannaggio del non-mercato dell’etere. Ma se la stessa domanda la pone retoricamente anche un commissario dell’Autorità Indipendente di vigilanza, l’AGCom, che si sta arrogando poteri regolatori sulla rete, allora la cosa diventa pericolosa ed intollerabile.
Lunedì 17 ottobre a Eurovisioni il commissario AGCom Antonio Martuscello ha pubblicamente affermato che:
– la civiltà occidentale è fondata sul diritto d’autore e la democrazia va tutelata dai nuovi “pirati dei caraibi” (mi son segnato la stranezza geografica, che forse voleva esser una citazione audiovisiva colta) che sono, ha detto testualmente, “hacker e blogger!”;
– mancano regole e la magistratura non è in grado di decidere. Il Commissario ha citato come sommo esempio i contrasti giurisprudenziali delle vertenze R.T.I.-Mediaset contro YouTube e i vari ISP. AGCom, ha assicurato, colmerà questo vuoto;
– Il web produce gusti ma anche disgusti, come i linciaggi mediatici del povero Vasco Rossi. Non si può più tollerare la mancanza di regole.
– last but not least, il commissario Martuscello ha affermato che è inconcepibile che su internet non ci sia il diritto di rettifica e non si applichi la par condicio in periodo elettorale, ed ha fatto l’esempio di Milano, dove Pisapia ha condotto la sua campagna liberamente sulla rete. E ha aggiunto: ha pure vinto! L’uditorio, composto dai protagonisti della televisione, non si è scomposto, assentendo con vigore alle parole dell’ex collega, improvvidamente assunto al rango di regolatore del web.
Ma il web non è la televisione e la televisione non è il web: e questo al di là delle connectTv e dei cento canali di YouTube. Se i broadcasters vogliono lanciare le loro televisioni ibride per recuperare telespettatori ben venga. Non è il web, e sarà il mercato a decidere. Ma due sono le condizioni imprescindibili perché ciò possa avvenire senza danno per internet:
– che non si chieda alla rete e alle Telco di regolamentare il traffico per garantire l’ampiezza di banda che occorre alle loro trasmissioni broadband, chiunque sia l’emittente, perchè a Roma ho sentito richieste di traffic management inaccettabili;
– che non si cerchi di battere (o abbattere) la concorrenza vera del web invocando le regole dettate per il mondo verticale della televisione, ove concorrenza non c’è. Sarebbe come, per non zoppicare con una gamba ingessata, ingessare anche la gamba sana.