Geishe, assassine e divorziate
Se siete molto appassionati di Tarantino potreste conoscere Lady Snowblood, un film giapponese del 1973 – arrivato in Italia soltanto nel 2007 – sulla più spietata sicaria del Giappone, addestrata da un maestro di arti marziali per vendicarsi dei criminali che uccisero il padre e il fratello e stuprarono la madre. A detta del regista è tra le principali fonti di ispirazione per Kill Bill: non solo nella trama e nel personaggio femminile consacrato alla vendetta, ma anche nella struttura narrativa, nell’uso di anime e disegni per rievocare il passato e nella scena di battaglia ambientata nella neve. A sua volta il film giapponese non è un’opera originale, ma è tratto da un manga dallo stesso titolo – e da capitoli con nomi suggestivi come “Donna elegante con ombrello su una pioggia di sangue”, “Fiore di giovinezza, Uniforme bianca e Canzone di lacrime”, “La confessione di un fotografo indecente” – scritto da Kazuo Koike, illustrato da Kazuo Kamimura e pubblicato in serie sulla rivista Weekly Playboy dal 1972 al 1973. In inglese è stato tradotto per la prima volta nel 2005 da Dark Horse Comic, in Italia l’ha pubblicato la casa editrice milanese J-Pop nel 2015.
Lady Snowblood è l’opera più famosa di Kazuo Kamimura (1940-1986), tra i più importanti autori di manga seinen e gekiga, che oggi definiremmo grossomodo fumetti per adolescenti e graphic novel per adulti. I gekiga in particolare identificarono la generazione dei giovani giapponesi della controcultura degli anni Sessanta e Settanta che, cresciuti con le storie disimpegnate dei manga, continuarono a leggerli anche da adulti; favorirono così la nascita di un genere illustrato che trattava temi più seri e che criticava la società dell’epoca (gekiga significa proprio “immagini drammatiche”).
Nelle sue opere Kamimura ha raccontato storie di persone ai margini, che cercavano di vivere dignitosamente in un sistema di norme spietate, conservatrici e oppressive. Il delicato Una gru infreddolita. Storia di una geisha segue per esempio la vicenda di una bambina venduta dalla famiglia per un sacco di riso a una casa di geishe, immergendosi in quel mondo fatto di sopportazione, mistero, piacere e disperazione. L’edizione italiana, uscita sempre per J-Pop, ha il pregio di essere l’unica al mondo con tutti i sedici capitoli disegnati da Kamimura, anziché priva dei due censurati nella versione giapponese, che ha fatto da modello per tutte le altre.
J-Pop ha pubblicato anche gli altri due capolavori di Kamimura, a partire dai tre volumi di Dōsei jidai. L’età della convivenza (1, 2, 3). L’opera fu uno specchio per la nuova generazione, che sceglieva di vivere fregandosene delle regole del tempo: i protagonisti sono una coppia che rifiuta l’unica via del matrimonio e che sceglie di vivere semplicemente insieme, legandosi soltanto nel sentimento.
Il club delle divorziate – Kamimura ha un tocco d’oro per i titoli – è appena uscito, in due volumi (1, 2). È ambientato negli anni Settanta come L’età della convivenza ma la storia è meno moderna e familiare, incastrata invece tra passato e modernità. Yuko ha 25 anni, un divorzio alle spalle e una bambina di tre anni da mantenere; per farlo la affida alle cure della nonna in campagna e apre un club notturno nel quartiere di Ginza, a Tokyo, dove ragazze divorziate come lei intrattengono uomini d’affari più o meno tronfi e facoltosi. L’atmosfera è ambigua ma le ragazze non sono tenute ad avere rapporti sessuali con i clienti; non era infatti una forma di divertimento trasgressiva o immorale, ma era approvata dalla società dell’epoca tanto che spesso erano le stesse aziende a coprire le spese per i dipendenti.
Kamimura si è scherzosamente ritratto tra gli avventori del club
La storia di Yuko è banale e vista molte volte: quella dell’eroina sofferente che non riesce a dimenticare l’ex marito ubriacone e violento, umiliata dalla madre per non saper essere convenzionale e non amata dalla figlia, ignara dei suoi sacrifici. Ma oltre questa superficie la sua figura è più complessa: incarna l’incapacità della donna dell’epoca di trovare un ruolo nuovo, e più in generale quella tragica delle figure emarginate, che non saranno mai in grado di sentirsi a proprio agio fuori dall’emarginazione, che le rende libere e insieme le tormenta.
L’opera segue le vicende di altre ragazze e alterna tavole che cedono al sentimentalismo a fredde infografiche con i dati sui divorzi all’epoca. Kamimuro informa asetticamente il lettore dell’inferiore risarcimento che le assicurazioni pagavano alle famiglie delle hostess (le ragazze che lavorano nei club) in caso di morte; della percentuale molto bassa di quelle che volevano risposarsi; dei contribuiti economici che ricevevano dagli ex mariti: nel 1974 il 60 per cento non otteneva niente, il 18 per cento un sostegno minimo. A volte, come nel caso della protagonista, erano le donne a rifiutare ogni aiuto per far valere la propria indipendenza; allo stesso tempo però i figli venivano spesso allontanati dai padri, che non avevano alcun diritto su di loro. La tabella più cruda elenca tutte le hostess che si suicidarono nel 1974, a che età, dove e perché.
Non sono solo la storia, l’affresco sociale, la crudezza dei dati a rendere Il Club delle divorziate un’opera in grado di vincere le distrazioni, farsi leggere e restare in testa una volta finita: sono protagoniste le immagini, di volta in volta sinuose, ostinatamente geometriche, carnali, che avvicinano nel silenzio agli stati d’animo dei personaggi e al cuore del loro mondo.