La clonazione della colazione
Carrot Cake, Chocolate Cookie, Blueberry Muffin, Yogurt e Granola, Scones con burro e marmellata, Cheesecake, Pancake: prima che piatti sono hashtag e smaglianti fotografie su Instagram, e parole stampate sulle lavagne con lo stesso font – solitamente il Lobster, ormai noto come il nuovo Comic Sans – di bar tutti uguali, un po’ hipster un po’ shabby-chic un po’ hygge, con tavoloni di legno e colori sbiaditi, bicchieroni di caffè da portar via, ragazzi/ragazze decisamente carini, sorridenti e poco svelti dietro il bancone, e barbuti, occhialuti e con t-shirt a righe, piazzati davanti a un PC dall’altra. Sono i posti alla moda del #comfortfood, dove sfogliare per ore una rivista fatta più di immagini che di testo e dove attaccarsi al PC a lavorare o navigare tra i siti di quelle riviste, che vendono desideri e stili di vita. Sono posti utopici che accedono sullo stesso mondo vagheggiato da élite culturali di tutto il pianeta, allettanti, rassicuranti, interscambiabili: sedendomi a un bar di Tunisi mi sono ritrovata improvvisamente a casa a Milano e in una mattina di vacanza ad Amsterdam.
(Google Images)
Sono posti in cui mi sono goduta comodamente il passare delle ore: mentre il tempo scorreva, in qualsiasi città mi trovassi, sono rimasti immutati, fissandosi in monotone maschere di plastica. Annoiata dall’ennesima colazione nell’ennesimo hipster coffee-shop mi sono resa conto che a Milano, dove vivo, e nelle città dei miei ultimi viaggi ho assaggiato di tutto, nei locali più scombinati e vari consigliati da guide tradizionali e da esperti delle ultime tendenze sul cibo: bò bún cambogiano, zuppa al tamarindo vietnamita, sharba libica, pakora e malai kofta pakistani, ravioli uzbeki con panna acida, insalata fattoush e mutabal libanesi.
A pranzo e cena ci abituiamo continuamente a nuovi alimenti, gusti e pietanze, che finiscono per passare dalle tavole d’avanguardia degli appassionati ai menu del giorno per la pausa pranzo. Piatti e cucine da ermetiche diventano familiari e scontate: vent’anni fa la nouvelle cuisine era qualcosa di astruso mentre ora non c’è locale milanese che non acconci i suoi piatti con salsine e descrizioni fantasiose e delicate, mentre parole come teriyaki, ramen e poke sono finite in pochi mesi su siti, riviste di cucina e ricettari. Chiaramente è un discorso che vale per chi di cibo si interessa e per le città più internazionali e vivaci, ma sperimentazione e innovazione – che si tratti di nuovi sapori, metodi di cottura e cucine fusion – sono una costante.
Nel mondo della colazione invece tutto questo non c’è e non c’è stato: il locale cool e innovativo è ancora il coffee-shop dal muffin elefantiaco, forse più buono ma non più allettante di quello che si trova in autogrill o da McDonald’s, e la nota dominante è un miscuglio insensato tra il cibo salutare – healthy nonostante le porzioni giganti del suddetto muffin – e il peccato di gola #yummy che coccola e che ci si merita. Non mi auguro la scomparsa dei cibi serviti in questi caffè (forse l’avocado ovunque sì: basta, dai) – e non voglio nemmeno criticare la globalizzazione e l’inevitabile omogeneizzazione dei gusti. Vorrei soltanto che questi posti perdessero l’alone di originalità e fighezza e venissero considerati per quello che sono: una grossa catena universale che ha assemblato e inventato una tradizione di dolci e brunch anglosassoni, e che propone un volto anticonformista e antisistema, ma che per standardizzazione e capillarità ricorda una variante costosa di McDonald’s (forse solo ristoranti cinesi e pizzerie si assomigliano così tanto in tutto il mondo).
È in questa catena e nel suo fascino che si è insabbiato il rinnovamento nel mondo della colazione: è come se in Italia oltre a pasta e pizza l’unica alternativa fosse fatta di hamburger, bagel al salmone e avocado toast. Nel mondo della colazione sembrano infatti convivere due proposte che raramente si incrociano: da un lato i bar e le pasticcerie tradizionali, più o meno elaborati, con croissant e biscottini da tè che non offrono quasi mai cupcake e yogurt con la frutta; dall’altro i coffee-shop alla moda, dove l’unico biscotto è un enorme cookie o qualche variante home-made resa healthy da parole fascinose come raisin e ginger.
È una sensazione che mi conferma anche Giorgio Pugnetti di Il Colazionista, un blog di “collezionisti di colazioni”, come si definiscono: indica i migliori posti in cui farla in Italia e nel resto del mondo, racconta le nuove tendenze, tra confetture e torte all’acqua, e i tanti modi diversi di fare colazione nel mondo. Pugnetti mi racconta che il mondo della colazione, secondo lui, va verso due strade: la sperimentazione e l’introduzione di nuovi dolci e combinazioni nel mondo hipster, come il cronut, per qualche mese di moda qualche anno fa, e la riscoperta della tradizione soprattutto torinese, strada aperta da anni da Eataly e Slowfood: la nuova e diffusa cura per le materie prime e per la fattura della brioche italiana – un mix di lievito e pasta sfoglia – con lievito naturale e confettura farcita a mano. Una riscoperta, non un’innovazione appunto.
I coffeshop hipster frugano in cerca di novità tra i consigli online di foodie e blogger, mi spiega Ilaria Mazzarotta, food-blogger e autrice di quattro libri di cucina, che ha curato per alcuni anni The Breakfast Review, un meticoloso sito di recensioni di colazioni. La nuova tendenza è soprattutto l’introduzione di latti e yogurt vegetali, per bevande, pudding e budini, e la moda della zuppa d’avena – l’oatmeal – un porridge preparato spesso a casa di sera facendo bollire i fiocchi d’avena nel latte o nell’acqua e arricchito di zucchero e marmellata, e che ci si ritrova pronto la mattina al risveglio.
Non sembra quindi che questi due mondi, hipster e gourmet tradizionale, si incontreranno a breve, anche se già questa sarebbe una novità. A volte basta non aprire un locale con il pilota automatico e la mano sulla lavagna, finendo per affiancare brioche, piccoli pancake fatti sul momento e latte con cereali; la tradizione può essere rivisitata anche in modo originale, partendo dal classico e nostalgico pane-burro-e-marmellata offerto tra diversi paninetti e decine di marmellate più o meno bizzarre, e finendo per impastare i profumati biscotti dei forni romani con ingredienti e sapori di altre cucine (a parte il tè verde: buonissimo ma ormai non c’è lavagna che non abbia scritto la parola matcha).
Sarebbe già un primo passo verso una sperimentazione più scatenata, paragonabile a quella degli altri pasti, con l’introduzione e l’adattamento di dolci di altri mondi: biscotti ai fagioli rossi, budini di tapioca e mochi a colazione (non ho idea di quando si mangino in Giappone, ma che importa? Per ogni purista indignato dalla ricetta fantasiosa della carbonara pensate ai vostri vicini – spero non voi – che hanno usato le bacchette per suonare una batteria immaginaria o a quando avete immerso il sushi dalla parte sbagliata nella soia o non l’avete mangiato nell’ordine giusto). Ci sono le regole, è divertente rispettarle e raffinarle (i gratuiti rimuginamenti su quale sia il formato di pasta ideale per ogni sugo), ma allo stesso tempo i sapori e le consistenze sono qualcosa con cui inventare e sperimentare, soprattutto ora che ne possiamo assaggiare a decine.
30th June 2017, wagashi of the day. “Minazuki” By Higashiya, Tokyo #wagashi #wagaaashi #japanesesweets #higashiya #washoku #japanesebeauty #minazuki #和菓子 #HIGASHIYA #水無月 #ういろう #小豆 #tokyo #東京 Un post condiviso da wagaaashi (@wagaaashi) in data:
Mi limito a parlare di dolci: riso e costolette a colazione, se non come esperienza singolare e spiritosa, mi sembrano ancora inarrivabili. Ed è forse questa la chiave che spiega la letargia innovativa della colazione: è il pasto che consumiamo appena svegli, spesso di fretta, senza voler prendere nessuna decisione. È quello che più di tutti deve essere facile, rassicurante, accogliente, deve convincerci a uscire di casa con gli occhi spiegazzati e i muscoli pesanti e ad affrontare il mondo. A colazione cerchiamo la mamma, non abbiamo voglia di sperimentare e di metterci in gioco, vogliamo solo abbracci e protezione.
A margine: piccolo elogio del melting-pot, dell’accoglienza generosa e incasinata, della mamma più mamma che c’è
Da più di un anno vivo in Sarpi, la Chinatown milanese, uno dei quartieri più seducenti e in crescita della città. La via principale, con rivoli di stradine abitati quasi solo da cinesi, alterna eleganti e longeve boutique gestite da italiani – sartorie, cartolerie, abbigliamento di alta moda – a negozietti di cianfrusaglie ed elettronica asiatici, ma è anche la nuova via del cibo di Milano: una macelleria di dispendiose prelibatezze, una gastronomia con una delle migliori selezioni di formaggi francesi della città, l’antica enoteca Cantine Isola, OTTO e i suoi quadrotti, e tanti nuovi locali cinesi di moda anche tra gli italiani: l’hipster Tang Gourmet, la Ravioleria di Sarpi – ravioli cinesi con carne piemontese, e sempre qualcuno in coda – e i numerosissimi Bubble Tea Bar, che vendono bevande zuccherose di frutti esotici tra cui appunto il Bubble Tea di Taiwan, a base di tè, latte e con perle di tapioca (palline glutinose e dolci – praticamente caramelle gommose – che si succhiano con una larga cannuccia). Scrivo tutto questo da una pasticceria aperta da due mesi, dove ho bevuto un tè nero ghiacciato con la tapioca e ho fatto colazione con una torta ai datteri; ma avrei potuto scegliere tra dolcini di riso, coloratissime (e ammetto poco invitanti) fettone di pan di Spagna, sfoglie, baozi dolci o salati, frollini allo zenzero, macaron, pasteis de nata. Non so se questo sincretismo – questa accozzaglia – sia una buona soluzione. Di sicuro è più divertente dell’ennesimo enorme1 cookie al cioccolato.
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1. La cosa buffa di tutti questi posti salutari, healthy, sono le dimensioni enormi di dolcetti e bowl: non è una questione di calorie è che le porzioni piccole, oltre che belle da vedere, permettono più assaggi. Direi che riescono anche meglio in foto.
Un discorso parallelo a questo e forse contrario. Sono da poco tornata da Parigi, dove ho pagato due euro e mezzo per un espresso, sempre di una bontà imparagonabile a quella di un comune bar italiano. Tra le recensioni su Tripadvisor di uno di questi locali – senza lavagnette e con un barista che dubito sapesse cosa fosse il Coachella – un tizio scriveva che il caffè non era buono quanto quello di Sydney, ma era davvero ok. Mi ha fatto sorridere, da italiana cresciuta nell’idea che caffè pasta e pizza li sappiamo fare solo noi. Questa arroccata convinzione della nostra superiorità ha impedito l’arrivo della cosiddetta third wave of coffee, quel movimento di cura e attenzione, spesso ridicolizzata, per il caffè, selezionato e macinato per ogni tazzina, una moda un po’ da fissati. Resta però che il caffè è più buono e che ci sono tante torrefazioni e se ne possono aprire di nuove, senza per forza chiamarle coffee roasters.
Backlot Coffee recently opened their second location in Old Irving Park and they’re making all the right moves. If you’re in the Chicago area, swing by. They’re serving up Hair Bender espresso and offer a full roster of single origins. @g_a_b_e__ Un post condiviso da Stumptown Coffee Roasters (@stumptowncoffee) in data: