Una città unica che merita un’attenzione diversa

Anni fa lessi una serie di interviste ad architetti e urbanisti che raccontavano le città attraverso i loro specifici strumenti e ognuno con il suo linguaggio. Così ho pensato di riprendere quella tradizione. Allora, si parte con Roma vista da Luca Galofaro, uno dei fondatori dello studio di architettura IaN+. Docente in Urban Design all’università di Camerino.

Prima di tutto, come vedi Roma? L’immaginario cinematografico ci ha abituati a un doppio registro: o terrazze o degrado.
Hai ragione, negli ultimi anni, l’immagine di Roma si è trasformata completamente, da una parte è diventata prodotto da vendere per incrementare il turismo: la grande bellezza di Sorrentino. Dall’altra, spazio di scontro politico sul degrado prodotto dalla periferia: la Roma di Favolacce, per intenderci.

Eccezioni?
Beh, anche quando una bellissima rivista come Passenger, racconta solo la Roma più problematica senza soffermarsi sugli aspetti che invece rendono questa città viva, ci accorgiamo che la città è diventata, suo malgrado, un prodotto da consumare velocemente.

Va bene, torniamo indietro, c’è stato un momento in cui, la città, sembrava offrire qualcosa di diverso, oltre alla visione binaria, degrado più terrazze?Roma ha perso la sua vocazione di città – laboratorio che ha avuto per più di un decennio alla fine degli anni Settanta. Allora un progetto culturale viaggiava in parallelo ai progetti di architettura: si immaginava un’altra città. Anche io, come architetto, sono deluso dal fatto che a Roma manchi un progetto sulla città capace di ricostruire la sua immagine, ma cerco sempre, in modi diversi, di credere che Roma sia una città – modello.

Vista la situazione, non è un po’ troppo aspirare a un modello?
Proporre oggi Roma come modello può apparire una provocazione, se si pensa alle sue trasformazioni incontrollate e se si ripercorre la serie infinita di fallimenti prodotti dagli strumenti di governo del territorio.

Quindi?
Quindi è proprio dalla natura imperfetta e caotica di questa città, dall’informalità di alcuni suoi processi, che emerge un possibile modello evolutivo, in cui si fondono, più che in ogni altro luogo, progetto ed errore; in cui gli scarti vengono continuamente riutilizzati in una riprogettazione continua della città stessa e del paesaggio. Non dimentichiamolo: è una delle grandi risorse di questa città!

Mi fai degli esempi?
Federico Fellini con il film Roma del 1972, per esempio, la utilizza come grande spazio dell’immaginario, luogo di confronto tra il mito universale dell’urbe per eccellenza e l’autore che si specchia al suo interno. La città è usata come metafora dell’Italia che cambia, epicentro e sintesi delle nevrosi nazionali. Una Roma quindi che è tante cose diverse e mai fino in fondo solo sé stessa. Quell’ immagine di Roma veicolata da un grande autore, non cerca nulla di rassicurante, anzi, pone una critica feroce alla città, ma allo stesso tempo fa emergere dal pensiero critico una speranza per il futuro. Roma per Fellini è stata un inesauribile fonte di ispirazione. E noi dovremo tornare a guardarla con gli stessi occhi critici per poterla immaginare diversa.

La cultura è uno strumento di lavoro sulla città?
La cultura, come sosteneva Carlo Argan, può salvarla ancora una volta. Se riusciamo a capire alcune sue condizioni uniche, saremo in grado di cogliere il suo valore più grande.

Allora mi definisci questo modello?
Roma può diventare una città modello, non in senso formale naturalmente, ma concettuale, perché capace di generare spazi urbani diversi ed autosufficienti.  Se osservata attraverso questa interpretazione, le condizioni che questa città è in grado di produrre, nella varietà della loro natura, assumono una grande importanza nel processo progettuale della città futura. Perché, una volta individuate, diventano occasioni di confronto e riflessione e si convertono in veri e propri strumenti di indagine e sperimentazione che rappresentano una forma ideale di pensiero, una struttura intellettuale che definisce gli obiettivi di un’attività culturale nuova.

Facciamo esempi? Sappiamo che Roma non è Roma ma un insieme di zone con specificità proprie. Sappiamo anche che non tutti i romani conoscono Roma, che i romani da generazioni e generazioni sono pochi, voglio dire c’è una grande quantità di immigrati, come il sottoscritto del resto. Sappiamo che ci sono notevoli problemi pratici, molti dei quali legati agli spostamenti, dunque a volte è proprio difficile spostarsi e conoscere la città. Alla luce di questo breve elenco, secondo te dove e come si può lavorare?
Certo, distinzione importante, c’è chi arriva a Roma e si accontenta di vivere la città all’interno di pochi quartieri, di solito quello in cui si vive, quello in cui si lavora e di tanto in tanto quello legato alla moda del momento.

E poi?
E poi ci sono quelli che amano perdersi nella città nonostante le condizioni avverse, quelli che provano a capirla e si adattano ai suoi tempi. Per muoverti devi usare macchina o motorino, questo significa viaggiare tra un’isola e l’altra, un amico giornalista, grande conoscitore della città, lo scorso anno ha percorso 1000 km viaggiando al suo interno, il viaggio della città nella città è l’unico modo per comprenderla a fondo.

C’è differenza tra capirla e rappresentarla?
Ripeto, non capire la sua grande bellezza ma capire la sua difficoltà ad essere città tra nord e sud, due modi che si confrontano forse in quel limite che è il Grande Raccordo Anulare che non da direzione, non sceglie ma tiene insieme l’intera città, e che ha dato modo a Federico Fellini di raccontare attraverso l’analogia la sua Roma nuda e cruda.

Senti Luca, torniamo alla domanda, nell’insieme quali sono le condizioni che definiscono la città?
Primo: la condizione del vuoto. Roma, per la sua storia e natura, appare ancora oggi come un arcipelago di isole in un mare di spazi vuoti. I vuoti sono di varia natura, alcuni già valorizzati nelle loro potenzialità, attraversabili e percorribili e restituiti alla collettività, altri invece ancora attendono di diventare parte di questo mare capace di connettere anziché separare.

I vuoti sono spazi non edificati?
Sono paesaggi ma anche i grandi luoghi urbani della sua storia, pensa a piazza San Giovanni, piazza, luogo per concerti, manifestazioni politiche e tanto altro, o il Circo Massimo, luogo storico, paesaggio ma anche simbolo, per lo scudetto della Roma si sono radunati più di 1.500.000 persone.

E poi ci sono gli spazi verdi, i grandi vuoti dei parchi, progettati e no.
Sì, in prospettiva, questo continuum di spazi verdi rappresenta un’opportunità straordinaria per realizzare una rete di percorsi alternativi che attraversino tutto il territorio cittadino in contesti di grande qualità ambientale.

Con lo scopo di?
Di raggiungere una massa critica ambientale per la biodiversità, e per costruire dei corridoi ecologici per la diffusione capillare dell’agricoltura urbana, e infine per strutturare, dove opportuno, un sistema di spazi pubblici di relazione, piazze, aree sportive, tra le diverse parti di città che vi si affacciano. Ecco, ricominciare a costruire la città pubblica e con lei la cultura di un uso diverso della città.

Poi, seconda condizione?
Quella dell’abitare

Va bene, spiega.
Se Roma è un arcipelago di microcittà le sue isole sono i quartieri. Abbiamo i quartieri modello progettati nella prima metà del Novecento che ora sono luoghi ideali per le condizioni abitative e modelli per il futuro: si trovano in centro come in periferia. Poi ci sono i quartieri difficili dove è necessario impegnarsi per costruire un tessuto che li riconnetta al resto della città e infine abbiamo il mare della città informale. Ora, una valutazione su queste isole ci permette di estrapolare alcune qualità specifiche dello spazio abitato, nel campo soprattutto della sostenibilità economica e sociale, oltre che ambientale.

Per esempio?
Le dinamiche delle relazioni sociali, il rapporto tra spazi pubblici e privati, le opportunità di trasformazione e appropriazione del tessuto urbano diventano fattori fondamentali per valutare quali di questi quartieri, hanno la capacità di diventare modelli di sviluppo per il futuro.

Sono a Roma da 31 anni, ho abitato in vari quartieri, ad alta e bassa intensità abitativa e, ripeto, ho sempre avuto l’impressione che non si parlassero, quindi faccio fatica a vedere il modello.
Pensa ai quartieri ad alta densità. Da questi si stratificano una molteplicità di funzioni residenziali, direzionali e commerciali, che se ben connessi ai sistemi primari della viabilità e del verde, possono diventare dei poli attrattivi per il resto della città. Il paesaggio naturale gioca un ruolo fondamentale nelle strategie urbane. Pensa ad altri più minuti e residenziali, che però hanno una struttura che favorisce le relazioni di prossimità e la vita comunitaria, ad altri infine che plasticamente ibridano una pianificazione con la crescita dal basso, aprendosi alle nuove classi creative, attraverso lo sviluppo di microcomunità spontanee. Insomma, esistono a Roma quartieri che, con caratteristiche molto differenti, riescono a produrre l’intensità delle relazioni tra pubblico e privato, facilitare l’utilizzo e l’attraversamento degli spazi, sostenere e incoraggiare le economie emergenti.

Ok, scusa la mia scarsa immaginazione, ma mi fai un esempio di quartiere che riesce nei suddetti esempi?
A Roma esiste un quartiere che tiene insieme centro e periferia, perché lo si trova ai margini del Raccordo Anulare come a due passi da San Pietro, e che noi architetti chiamiamo città informale, sono aree non pianificate che in diversi momenti della storia sono cresciute spontaneamente, in tanti luoghi diversi della città, ora questa città che fingiamo di non vedere attraverso progetti mirati può diventare finalmente a tutti gli effetti un modello di sviluppo.

Ma dov’è?
Se esci dalla stazione San Pietro, dal lato opposto a quello della stazione ti trovi in un pezzo di città spontanea, senza marciapiedi, negozi in cui fatichi ad orientarti, sei a due passi dal cuore di Roma e sembra di stare invece al margine del Raccordo Anulare. Una non città che è diventata un tessuto connettivo.

Altro esempio?
Un altro esempio è un progetto che avevamo fatto per un’edizione della Biennale di Venezia anni fa con IaN+, il mio vecchio studio; un progetto per ritornare ad abitare il centro storico, che per noi era il vero spazio degradato della città perché poco abitato. Per farlo, avevamo progettato case dentro i ministeri (che sarebbero stati trasferiti fuori dal centro) e nelle ex caserme. Questo progetto nasceva dall’osservazione dalle dinamiche abitative dei quartieri consolidati in aree diverse della città.

Ci lavoro in un Ministero e, sì, in effetti le stanze hanno soffitti alti, altre condizioni?
Quella culturale!

Ahia! Affrontiamo il fosso dai…
Carlo Argan sostenva che Roma è una città che è cambiata senza un piano di sviluppo, secondo l’interpretazione che di volta in volta si dava del passato in rapporto ai problemi del presente. Per questo Roma è una città unica al mondo, una città tutta inventata, che non è stata mai progettata con calcoli di economista o da sociologo, ma è stata sempre immaginata. E a immaginarla, interpretando la storia in funzione di diverse ideologie, sono stati Alberti, Raffaello, Bramante, Michelangelo, Bernini, Borromini, Piranesi.

Siamo ancora legati a quella cultura

Certo, la cultura ha a Roma un ruolo chiave nello sviluppo della città. La cultura è rappresentata dai luoghi d’arte, ma anche dalla rete dei musei ma anche dagli spazi autonomi, specchio di una cultura alternativa. Un esempio su tutti: forte Prenestino, uno dei sedici forti che nella seconda metà dell’Ottocento erano stati costruiti a protezione dell’Urbe, il forte Prenestino è oggi uno dei centri sociali autogestiti e autofinanziati più attivi della città, luogo di produzione culturale e di azione politica che propone un modello di crescita autonomo rispetto alle dinamiche urbane più consolidate e che cerca il suo nutrimento nelle pieghe della legalità.

Cioè, è anche un modello di gestione diversa dei fondi?
Qui la pratica dell’autonomia rispetto alla gestione pubblica regala alla città degli spazi culturalmente e socialmente ricchi, spazi occupati e autogestiti che consentono di far crescere la comunità attraverso dinamiche che coinvolgono simultaneamente il lavoro produttivo alternativo, le produzioni culturali e le pratiche sociali di coesistenza. Sono i luoghi di resistenza, dove le lotte sociali costruiscono strutture organizzative condivise, in cui lo spazio comune non è inteso come una risorsa naturale, ma come un prodotto sociale e come una fonte inesauribile d’innovazione e creatività.

Altri esempi?
Abbiamo tanti spazi ibridi come l’ex Mattatoio uno spazio intermedio che si posiziona tra i contenitori programmatici e le zone autonome, e ospita soggetti e attività diversissime tra loro: spazi occupati, centri culturali autogestiti, spazi espositivi, università e altre economie, che insieme formano un tessuto in divenire di relazioni sociali, di produzione e consumo.
E non dimentichiamo poi il tessuto di gallerie, spazi di relazione che producono in autonomia cultura, senza fondi e con un’economia debole che costringe, chi le frequenta ad inventare procedure di autofinanziamento. Ti faccio un esempio, assieme ad un gruppo di amici abbiamo aperto la Galleria Campo. In soli 5 anni abbiamo organizzato 20 mostre, 4 workshop, 27 conferenze con collaborazioni importanti di musei stranieri, architetti, scuole di architettura e fotografi. Inventandoci protocolli espositivi e produzioni low budget. Roma è ricca di spazi come questo, noi siamo solo uno dei tanti, questi sono i luoghi della cultura.

Questione di comunicazione insomma…
È proprio dalla dialettica, tra formale e in-formale, tra spinte dal basso e programmazione dall’alto, e nel quadro di incertezza che è propria di questa città, che possono generarsi – e si generano continuamente – nuove opportunità e forme di spazio comune.  Insomma, le tre condizioni sono dei reali modelli di progetto attraverso i quali ripensare la città.

Va bene, vuoi concludere con appello?
È vero, Roma è una città difficile anche cattiva se vuoi, in cui è difficile fare tante cose, ma è anche una città unica che merita un’attenzione diversa, perché davvero può diventare modello per tante altre città che crescono solo attraverso investimenti privati, a Roma la città pubblica può vincere la sua sfida.

 

 

 

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.