L’antico vizio di togliersi la coppola
Approfittando dell’ospitalità del Post, ho intenzione di intervistare una serie di addetti ai lavori (in senso lato). Diciamo così, rappresentati nel vasto settore agricolo (AD di aziende che si stanno attrezzando per l’agricoltura 4.0, o ricercatori, agricoltori, storici e, se riesco, politici). Lo scopo è raccontare alcune cose belle prodotte grazie all’innovazione e come queste stanno cambiando l’agricoltura. E se siamo pronti ad accoglierle con le appropriate strategie politiche.
Sembra strano (perché l’agricoltura è sotto accusa) ma stiamo riuscendo a produrre More from Less (per citare un recente titolo di Andrew McAfee). Certo, è una strada che si apre, e non è detto che funzioni alla lunga, però è interessante fare un confronto tra ieri oggi e domani, e nello stesso tempo far conoscere (per meglio valutarle) nuove pratiche agricole.
Oggi approfitto della cortesia di Alfonso Pascale. Non siamo parenti (ma anche a lui, come a me, chiedono se è parente della più famosa Pascale: non lo siamo). Storico dell’agricoltura (con lunga esperienza di sindacalista, nelle campagne del sud). Insegna ruralità contemporanea ed economie civili nell’ambito del Master di I livello in Agricoltura Sociale presso l’Università degli Studi Roma Tor Vergata. Collabora con riviste culturali ed enti di ricerca e formazione.
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Mio nonno contadino aveva un solo vestito buono (il vestito della festa) e lo metteva per andare ai matrimoni, ai funerali e quando ascoltava i tecnici agrari che venivano in paese a parlare di agronomia. La cultura era sacra anche perché serviva nella vita: c’era molta povertà e la cultura sembrava potesse aiutare. Tu hai ricordi simili, com’erano i contadini una volta?
I miei nonni erano artigiani e, nello stesso tempo, proprietari di piccoli appezzamenti di terra coltivati dalle mie nonne con l’aiuto di un colono a la parte, lu parziunalu. Provenivano da famiglie contadine. Chi viveva solo di campagna era percepito un gradino più in basso nella scala sociale, anche se magari le sue condizioni di vita e di reddito erano relativamente più elevate.
Ok, c’era disagio per questa percezione?
Sì, anche per queste dinamiche, i miei genitori mi assecondarono quando a dieci anni espressi il desiderio di farmi prete. E non capirono cosa fosse realmente successo, quando al secondo anno di liceo classico fui espulso dal seminario per le mie idee politiche di sinistra. «Meglio un buon padre di famiglia che un prete comunista» sentenziò il rettore dopo aver sbirciato alcune lettere che mi aveva spedito don Marco Bisceglia della Comunità cristiana di base di Lavello. Mi amareggiò quella rottura: s’interrompeva un periodo di formazione culturale e spirituale e di impegno ecclesiale e civile tra spirito di rinnovamento conciliare e ribellismo post-sessantottino.
Ok, fammi capire come è andata a finire
Per tigna, chiesi di iscrivermi alla sezione del Pci. Per accogliermi, i dirigenti locali fecero tre riunioni: sospettavano che fossi stato inviato dal parroco a spiarli. Garantì la mia buona fede un contadino, Pasquale Moscarelli, che non conoscevo di persona. Con quel gesto di buon senso, egli segnò il percorso che successivamente avrei fatto nella mia vita.
Cioè?
Moscarelli era uno dei capipopolo che tenevano il collegamento tra l’Alleanza dei contadini e le campagne dei diversi comuni. Decise per questo di investire sulla mia formazione scolastica. «Noi contadini abbiamo bisogno di istruzione continua e di capi allitterati, e così ho pensato a te» mi disse coi suoi modi bruschi ma affettuosi. Capii che quel mio “sì” era una scelta di vita, non per un partito o una organizzazione sindacale, ma per una causa diversa: quella dell’agricoltura che stava completando il suo processo di modernizzazione e degli ultimi contadini che stavano trasformandosi in imprenditori. Ancora oggi sono rimasto fedele a quella scelta.
Aspetta che voglio arrivarci alla questione arretratezza/modernizzazione, restiamo sulla cultura…
Completai gli studi liceali e fui eletto presidente dell’Alleanza provinciale dei contadini di Potenza. Non mi iscrissi all’Università e da autodidatta incominciai a studiare economia, diritto, sociologia, antropologia e consolidai la mia formazione storica e filosofica. Sentivo il bisogno di impadronirmi di quelle conoscenze e competenze per comprendere la ruralità contemporanea e le trasformazioni della società civile delle campagne.
Ma il percorso culturale qual era? Voglio dire gli stimoli, i libri…
Lo stimolo allo studio mi veniva dai lunghi e continui incontri serali tra i contadini: parlavamo di contratti agrari, riscatto di poderi della riforma fondiaria, Piani verdi, Politica agricola comune, cooperative, associazioni di produttori. Collaboravano con me due agronomi che si erano formati come divulgatori agricoli polivalenti. E insieme organizzavamo azioni dimostrative tra i contadini per diffondere le innovazioni.
Sono scene di cui per esempio già la mia generazione (classe 66) non ha memoria, quindi fammi capire.
Ricordo quelle riunioni nelle frazioni dei paesi e nelle contrade di campagna, nelle serate estive in mezzo all’aia e d’inverno nelle case annebbiate di fumo per le sigarette e i camini accesi. I più giovani stavano in prima fila ed erano i primi a fare domande e a parlare dei loro progetti per il futuro. Li osservavano compiaciuti i capipopolo, chiusi nei loro vestiti di velluto. Anch’essi, come tuo nonno, indossavano l’abito della festa per i nostri incontri.
Ah, vedi, il vestito della festa di mio nonno non è un caso isolato, però non so se mio nonno fosse un capopopolo, non credo, comunque, me li descrivi?
Sono quelli che negli anni Cinquanta avevano insegnato agli altri contadini la lezione di Di Vittorio sulla “coppola”. «Vi dovete togliere il vizio della coppola!» dicevano. Nel linguaggio popolare lucano, al termine “vizio” non si attribuisce il significato opposto di “virtù”. “Vizio” è piuttosto sinonimo di “abitudine”. I contadini da sempre ripetevano il gesto di togliersi il copricapo, sia quando volevano essere cortesi nei confronti di un’altra persona, sia in segno di sottomissione. I capipopolo avevano spiegato loro la differenza tra soggezione e subalternità da una parte, civismo e buona educazione dall’altra. E su questa loro funzione educativa avevano edificato la propria reputazione.
Ok, quindi i capipopolo erano il tramite da voi e i contadini?
Sì, nelle serate in cui parlavamo di laghetti artificiali per diffondere gli impianti irrigui in collina e montagna, essi ci guardavano incantati: pensavano ai tanti raccolti perduti per le frequenti siccità. Eventi rovinosi che avevano tentato invano di contenere con preghiere che, a loro volta, si trasformavano in maledizione-imprecazione.
Il vecchio fatalismo del sud, diceva Ernesto de Martino, con molte attenuanti serie. Ma i giovani? All’epoca erano fatalisti?
I giovani della Basilicata interna conoscevano per filo e per segno le occupazioni di terre raccontate e mitizzate dai genitori e dai nonni. Sapevano che nel Metapontino la riforma agraria e le grandi opere irrigue avevano permesso di impiantare il pomodoro galatina che rendeva 150 quintali ad ettaro e il San Marzano con medie di 400 quintali per ettaro. Si erano potuti espandere gli agrumeti. E dopo alcuni anni anche l’uva da tavola, la fragola, l’albicocca, la susina, la pesca e altre colture di pregio. Perché non tentare anche nelle zone interne uno sviluppo analogo?
E sì…
Invitavamo agli incontri i ricercatori dell’Istituto Sperimentale per la Zootecnia di Potenza: venivano a spiegarci come programmare i pascoli e le coltivazioni foraggere così da assicurare una migliore alimentazione agli allevamenti podolici e ovicaprini. Essi avevano appena cominciato a studiare il pascolo naturale e la biodiversità vegetale e animale per diversificare i contenuti qualitativi dei formaggi. Altri scienziati venivano da regioni diverse per aiutarci a diffondere il melo e il pero in Val d’Agri.
Quindi torniamo alla domanda di partenza, il gusto della cultura era sentito perché dava la possibilità di migliorare il proprio status attraverso il miglioramento del processo produttivo?
Sì. Ho impresso nella memoria il fervore di quegli anni per la sperimentazione e l’innovazione. C’era nelle famiglie contadine che non erano emigrate, una forte volontà di migliorare le proprie condizioni. In quegli anni, alcuni giovani che tornavano dalle università portavano con sé la voglia di sperimentare modalità di fare agricoltura diverse da quelle che avevano visto protagonisti i loro genitori.
Esempio?
Per essi, gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana – dalla fruizione più facile delle diverse forme della conoscenza e della cultura all’adozione di modelli di abitabilità rispettosi della privacy – si sarebbero potuti integrare con le opportunità che solo i territori rurali erano in grado di offrire. Chi non ha mitizzato questi tentativi, ma ha dedicato ad essi impegno e studio, è riuscito a creare imprese che ancora oggi si confrontano con il mercato.
A questo punto, per riprendere il rapporto arretratezza/modernizzazione, non credi ci sia nella percezione dell’immaginario agricolo un deficit di conoscenza? Di storia contadina, dico. Ora, cito Pasolini solo perché da grande visionario (reazionario) su questo aspetto, il genocidio culturale contadino, l’omologazione della lingua ecc. negli anni ’70 ha insistito parecchio. E ancora oggi un’eco di quelle riflessioni le ritroviamo: vogliamo che il contadino sia come quello di una volta (anche se non ci specifica mai l’anno di riferimento da cui far partire il concetto di una volta), siamo convinti che quel contadino era una persona rispettosa della natura, avvezzo alla modernità e per questo capace di custodire il valore della terra e del cibo. A me sembra un po’ di tornare al vecchio vizio di cui parlavi: vogliamo che il contadino si tolga la coppola.
Oggi il termine “contadino” è tornato in voga tra gruppi di giovani e meno giovani affascinati dal mito dell’agricoltura “di una volta”. Il motivo di questo revival è uno solo: si è cancellata la memoria delle tristi condizioni di vita dei contadini. Alla storia è subentrato il mito. Pasolini ha sicuramente contribuito più di altri esponenti della cultura italiana a creare una percezione sbagliata del passaggio dall’antico mondo contadino alla società industriale.
Perché secondo te?
Per lui la civiltà contadina aveva rappresentato l’età dell’oro. Mentre la modernità costituiva l’esito di una mutazione antropologica dei contadini. Essi erano emigrati nelle periferie delle grandi città. E il poeta li considerava ormai catturati da potenze oscure e contaminati dal consumismo. Insomma, una visione che univa antimodernismo, complottismo e moralismo e anticipava di quattro decenni i populismi odierni. E tutto questo solo perché, nella dieta e nel vestire e nei consumi medi sempre molto bassi in Italia rispetto all’Europa, gli italiani fuggiti con l’emigrazione di massa dalla miseria contadina, avevano cominciato ad assaporare un minimo di benessere, di eguaglianza sociale e di diritti democratici.
È un aspetto che mi piace sempre molto esaminare, è legato sempre al mito delle origini e alla difficoltà di fare una analisi rigorosa di costi e benefici di un cambiamento, e credo che scontiamo questo deficit ancora oggi…
Questa visione reazionaria e pauperistica è oggi rappresentata dall’ambientalismo radicale che persegue un integralismo naturalistico speculare all’integralismo antropologico. Una visione del tutto indifferente ai gravi problemi dell’umanità. Per questo è necessario continuare a polemizzare con alcuni aspetti del pasolinismo.
Dai polemizza
Il diritto della natura al rispetto non si afferma abbassando la guardia sui diritti individuali e costringendo le persone a tornare all’antico vizio di togliersi la coppola. Non si tutela l’ambiente attribuendo personalità giuridica a fiumi e monti, come pure è accaduto, ma al contrario integrando uomo e natura all’interno dello stesso concetto di vita.
No, aspetta, sull’integrazione si può discutere per ore, non si capisce mai bene cosa dovrebbe fare l’uomo e cosa la natura…
È che manca ancora una storia sociale delle campagne italiane. Quando si scriverà questa storia si potrà chiarire che agricoltura e natura non sono mai coincise.
Ah ok, cioè?
I paesaggi agrari pianeggianti, sono in buona parte il risultato di un secolare lavorio di umane generazioni che le hanno strappate alle acque. Le pianure meridionali sono state letteralmente create con prosciugamenti, strade, abitazioni, opere di civiltà. Per secoli la malaria ha disegnato il profilo di gran parte della penisola, rappresentando uno dei pochi tratti comuni di un paese attraversato da differenze profonde. C’è voluto un enorme impegno di risorse pubbliche e private per riorganizzare il territorio e renderlo dappertutto vivibile. E oggi occorrerebbe continuare quel percorso con poderose politiche di difesa e manutenzione del suolo.
Tu dici che questo aspetto è uno dei mattoni che costruisce il muro di ignoranza, per così dire, tra cittadino e agricoltore, agricoltura immaginata e quella reale?
Tranne qualche studio recente come quello di Adriano Prosperi, manca ancora una storia sulle condizioni di vita e di lavoro dei contadini. Si scoprirebbe che l’igiene è stata la barriera sociale che divideva la cultura ufficiale dal mondo contadino.
L’odore di campagna, sì, te lo porti addosso, quando ho raccolto il tabacco (ero giovane) non riuscivo a togliermi l’odore dalle mani, vabbè ma dimmi…
La sporcizia ha rappresentato il segno ineliminabile di un mondo a parte, tanto da raggiungere talvolta gli estremi del razzismo. E solo nella seconda metà dell’ottocento, assetto della casa, abbigliamento, alimentazione, nascita e cura dei bambini, sepoltura dei morti e altro ancora cessarono di essere comportamenti tradizionali richiesti da convinzioni religiose e abitudini locali e ricaddero sotto il governo della scienza medica e delle regole pubbliche imposte dallo Stato.
Ok e mi dici, cosa conserveresti di quel mondo? Guarda la cosa che mi ha sempre colpite è quel favorite, cioè se i contadini hanno un po’ di cibo e ti incontrano te lo offrono sempre
Andrebbe conservata la memoria di tante pratiche comunitarie della società rurale: la molteplicità dei riti di ospitalità nei confronti soprattutto dei più indigenti; il vegliare nelle serate invernali stando tutti insieme per educarsi reciprocamente alla socialità e permettere agli anziani di trasmettere ai giovani la memoria, i saperi e quei valori essenziali per dare un senso alla vita; lo scambio di mano d’opera tra le famiglie agricole nei momenti di punta dei lavori aziendali; l’idea di vicinato legata ad una reciprocità di diritti e doveri tra persone che abitano terre o case contigue e alla consuetudine della “prestarella” o “aiutarella”; i sistemi di regolazione del possesso aventi un’implicita tendenza verso la distribuzione egualitaria delle risorse, a partire dagli usi civici delle popolazioni locali sui terreni di proprietà collettiva; le società di mutuo soccorso e le associazioni locali, diffuse soprattutto nel Sud, come le chiese ricettizie, le confraternite, i monti frumentari, i monti di pietà; le forme cooperativistiche sorte tra i braccianti padani, che hanno segnato il movimento cooperativo in Italia come l’unico in Europa ad avere origini agricole.
Cioè un mondo con un suo codice relazionale?
Sì, sono forme concrete di relazionalità con cui gli individui si aiutavano vicendevolmente. Una sorta di ruralitudine, rimasta inconsciamente nei caratteri di fondo degli italiani. Una ruralitudine che conviveva con altri elementi, i cui residui putrefatti sono tuttora i familismi mafiosi e gli iniqui clientelismi. Ma se si valorizzano le esperienze virtuose, si potrebbero reinventare forme moderne di welfare in sostituzione di quelle stataliste e centralizzate, che si rivelano sempre più inefficienti.
Senti, per finire, ma non trovi che alla fine, nel tempo, molte delle innovazioni non vengono o non sono venute dai laboratori (altra parola demoniaca), ma dagli stessi agricoltori.
Certo, è un’altra memoria da ricostruire. Quella del rapporto molto stretto tra agricoltori e cultura agronomica, economico-agraria e di ingegneria idraulica. Un rapporto che ha alimentato, fin dal settecento, la modernizzazione dell’agricoltura italiana. È infatti il 1753 l’anno di nascita dell’Accademia dei Georgofili a Firenze. E nel decennio successivo sorgono accademie e scuole agrarie anche nella Repubblica di Venezia.
E chi erano i protagonisti?
Parroci e curati di campagna che conoscono l’agronomia svolsero un ruolo decisivo nell’educare e istruire i contadini nelle migliori regole dell’agricoltura. A consolidare la relazione tra cultura esperienziale e cultura scientifica emerge, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, il ruolo centrale dello Stato sia per quanto riguarda l’istruzione agraria che per quanto concerne la ricerca, la sperimentazione e la divulgazione delle innovazioni agrarie; ambiti fondamentali della politica agricola insieme alla bonifica e alle politiche di mercato. Se si chiarisse quel passaggio storico, si comprenderebbero meglio le ragioni della rottura ecologica che è avvenuta tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.