Il vero post umano
C’è sempre un momento durante la corsa in cui penso: posso far tutto. Funzionano i polmoni, i muscoli della gamba e quelli della coscia. Quindi, in accordo con la sensazione di buona forma fisica mi sono allontanato dai canonici 200 metri dalla residenza: da Donna Olimpia verso il Gianicolo, percorrendo via Vitellia, sono più di un chilometro. C’era silenzio e vuoto (i semafori quando cambiavano colore facevano rumore) e la luna crescente: cosa c’è di meglio – ho pensato – di guardare Roma dall’alto, nel bel mezzo del vespro?
Via Vitellia (da Donna Olimpia) costeggia Villa Pamphilj e sale, un po’ si inerpica, a volte anche la moto si ingolfa, tuttavia, appunto, potevo fare tutto e così mentre correvo ho pensato: la vita non la si può capire, al massimo si può sentire (che poi sentire è una particolare forma di comprensione). Il mio corpo sentiva quindi sentivo la vita.
Se siete sopravvissuti a queste ripetizioni e bisticci allora possiamo venire al punto: il mio corpo è stato gravato da pesi vari. Il primo è stato il peso dell’informazione.
Informazione, poi. Diciamo quella che il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha definito come infodemia, più precisamente: non stiamo combattendo solo un’epidemia, stiamo combattendo anche un’infodemia (tralasciamo, per comodità e non avviare digressioni, gli errori infodemici dell’Oms). Dopo puntuale consultazione della Treccani ho appreso che trattasi di “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili.
Quindi, nella sostanza, dall’inizio della pandemia, il mio corpo si è come infossato, per accumulo. Ascoltando le voci, le urla, i mugugni, ho avuto più volte l’impressione d’essere in buona compagnia. Sì, un corpo collettivo: addolorato per il conteggio degli accadimenti, preoccupato per le conseguenze dei propri comportamenti, infossato, imbardato, impigrito, igienizzato, malato, impaurito. Lo vedi?
Con le sue traiettorie goffe, a zig zag, per evitare incroci e confronti, vestito alla buona, a metà, tute, magliette, infradito. I nostri corpi, insomma, fermati sulla soglia del primo risveglio, senza eccitazioni e umani turgori, molle, sterile. Un corpo vittima di un carico eccessivo: conferma e spunta, poi smentisci, leggi, ma no, non questo ma quest’altro, sii rigoroso, no a semplificazioni, ma no, dai, qualche volta, meglio le semplificazioni, metti, togli, misura, lavati, attento agli spifferi, alla correnti, portano il virus, perché è nell’aria, è sulle maniglie, è fra di noi, non se ne andrà: un corpo asinino. In groppa un carico di informazioni.
L’altro peso è stato quello della responsabilità. Mi sono rivisto nella celebre lezione di Julio Velasco: Lo schiacciatore – spiegava Velasco – se schiaccia male se la prende con l’alzatore: la voglio più vicina. Allora il palleggiatore dice ai ricevitori: se alzo male è colpa vostra, voglio la palla qua. I ricevitori non sanno con chi prendersela. Mica possono avercela con gli avversari. Mi sono sentito come il ricevitore, un’altra forma asinina. Un cittadino sul quale piano piano sono state scaricate responsabilità. Il buon esito della fase due dipenderà dai cittadini, dicono. E dagli. E no! Ancora? Come dai cittadini? Almeno datemi strumenti di difesa, tamponi, reagenti, tracciamenti. Comunque, sia come sia, tutto è finito sul corpo.
Ma percorrendo via Vitellia, con discreta e costante andatura, il mio corpo si è ribellato: sì, si è alleggerito (nella potenza del corpo c’è anche la libertà). Ecco la soluzione: potenziare il corpo: ma sì, voglio essere un post human. Tanto quello che si ricorda è in gran parte costruito ex post, quello che non si ricorda è invece incarnato nel corpo: cerchiamo di dimenticare ma non si può. Si desidera o non si desidera attraverso il corpo. Le macchine non potranno mai conquistare il mondo, non hanno corpo e non hanno desideri e viceversa.
Se potessi – correvo e pensavo – potenziare il corpo, potrei sentire più forte la vita e con più forza percorrere la vita. Un device, dunque. Che mi permetta di sopportare i carichi, magari valutarli per me, e me li scrolli da dosso, se sono inutili: un device contro l’infodemia e le responsabilità del ricevitore: protetto, più forte, più selvaggio, più libero. A questo deve puntare la ricerca, al potenziamento delle membra, così, per correre in salita e mirare diritto al panorama.
E mentre mi avvicinavo al belvedere (aperto sull’antico languore di Roma) e nello stesso momento davanti agli occhi balenavano nuovi corpi potenziati, è successo: sono inciampato. Non ho capito la causa, una radice di platano in superficie o la solita buca, forse una crepa minuscola che la flora urbica ha prima conquistato poi allargato, fatto sta che ho nuotato nell’aria per riprendere l’equilibrio, e niente in un attimo sono passato da corpo potenziato a solito stupido corpo umano: mi sono ritrovato in ginocchio davanti al belvedere. Un attimo. Prima stravedi e un attimo dopo non vedi la buca. Dalla volontà di potenza alla tragedia.
Quand’è l’ultima volta che mi sono inginocchiato? Magari in chiesa. Ai tempi dei Salesiani. C’ho fatto le medie. Dopo un anno in cui ho servito messa non ho più voluto saperne di rituali religioni e preghiere. Ora, nonostante la confessione di agnosticismo, è pur vero che mi sono inginocchiato spesso. Davanti al Caos e al Tempo. Sono due divinità dall’aspetto tragico di cui i greci erano a conoscenza. Cercavano di tenerseli buoni. Se un dio esiste e qualunque faccia vogliamo attribuirgli, umana o meno, e chissà, magari è solo un grande atomo col suo sciame di elettroni, questo dio è Caos e Tempo: due motori dell’evoluzione.
A proposito di pandemie. Prendete il ciclo dei 4 protisti che causano i 4 tipi di malaria. Sono del genere Plasmodium. Un ciclo meravigliosamente complicato molto difficile da ricordare pure per i prof. di zoologia, figuratevi per me: sporozoita (ciclo asessuato che entra in circolo dopo puntura zanzara e migra nel fegato), merozoita (asessuato, esce da fegato e invade i globuli rossi), trofozoita (prospera nelle cellule sanguigne ingrossandole), gaetocita (sessuale, i gameti invadono il sangue e vengono prelevati dalla zanzara quando punge) oocinete (nell’intestino della zanzara, poi gli sporozoiti migrano nelle ghiandole salivarti delle zanzare e da qui il ciclo ricomincia).
Una meravigliosa catena, ogni anello è il risultato di una strategia adattativa. Tempo e Caos in azione per creare strutture tattiche e metamorfosi complesse. Cosa ci vediamo? Un disegno intelligente? A lui rendiamo grazie in ginocchio? Perché mai un dio avrebbe speso tanto della sua intelligenza per progettare un parassita così complesso? È solo il Tempo e il Caos. Perciò ci inginocchiamo.
Mica facile alzarsi . Bruciore alla schiena, respiro affannoso, polpacci di piombo. Poi nel nel silenzio ho sentito una voce: si è fatto male? Ho guardato la statua di Garibaldi. Come mi sono ridotto! Metti la chiusura, le pressioni, le informazioni, i rimproveri degli alzatori, con questi corpi igienizzati, adombrati, addolorati, spaventati somma tutto questo ed è più facile che parli una statua che un essere umano. Non era Garibaldi (anche se mi sarebbe piaciuto). Un signore. Non l’ho guardato. Avevo gli occhi bassi, la faccia anche, per paura del suo o del mio respiro infetto, oppure più semplicemente per paura che mi vedesse nudo durante il vespro. Eppure, incredibile, mi ha teso la mano. Come la mano, ho pensato: e che faccio? La prendo? Gli ho detto: sto senza guanti, senza mascherina. Vabbè mi ha detto, però stai a terra. Mi ha tirato su: poi ci laviamo le mani. Certo – ho detto – certo.
Quando ci inginocchiamo sentiamo il peso del nostro corpo. Siamo piegati e più vicini alla nostra ferita, è un dolore e un’occasione. Come il vespro: porta con sé sia lo spleen sia una sensazione di beatitudine. Il problema della ferita e le sue complicazioni è stato trattato da Sofocle, nel Filottete. Immaginate la scena. Filottete ha ricevuto da Apollo in persona un arco magico. Lui ha già una mira niente male e dunque l’arciere e l’arco formano una bella coppia. Ma ecco l’inciampo. Una vipera morde il piede di Filottete, nel bel mezzo del sacrificio ad Apollo, momento sbagliato: il rituale di interrompe. Il sacrilegio ha delle conseguenze. La ferita di Filottete non si rimargina, maleodora e fa tanto male, e dunque, Ulisse, stanco dei lamenti dell’arciere decide di lasciarlo sull’isola di Lemmo, che piangesse da solo.
Ma Troia è dura da espugnare, Achille è morto. Allora Ulisse decide di tornare a Lemmo, per riprendere Filotete. Si porta con sé l’ultimo figlio di Achille, Neottolemo, un adolescente dal cuore tenero. Ulisse ha un piano e lo dice a Neottolemo: vallo a prendere, fallo avvicinare alla barca, ma poi rubagli l’arco, fuggiamo e lo lasciamo sull’isola. Neottolemo si lamenta: ma è un inganno! Ulisse risponde: certo che sì! Dobbiamo vincere! Abbiamo bisogno dell’arco, domani potrai essere un uomo onesto, non oggi. Neottolemo trova Filottete, stessa ferita, stessi lamenti.
E tuttavia. Filottete si piega per il dolore, si inginocchia, ma si rialza sempre e così – ci dice il critico americano Wilson in un saggio molto bello e semplice, appena 4 pagine: L’arco e la ferita – Neottolemo capisce quello che Ulisse nella sua intelligenza pratica non vede: arco e ferita non possono essere separati, vanno presi insieme. Sono indissolubilmente, eticamente legati. Per questo Neottolemo tende la mano a Filottete e lo aiuta, decide di portare l’arciere di nuovo a Troia: la comunità che l’aveva respinto perché ferito e maleodorante lo riaccoglie. L’arco e la ferita caratterizzano la specie umana. Sono il problema e la soluzione.
Quando va male portiamo solo l’arco con arroganza, quando va meglio consideriamo anche la nostra semenza: la ferita. La specie umana si fonda sulla ferita, cioè sul senso di finitudine, sulla morte, sui traumi che sono una forma di morte prematura e sull’arco. Prendere coscienza della ferita dovrebbe essere il viatico principale per la vittoria: abbiamo dei corpi feriti, siamo inginocchiati, no? Sappiamo che c’è una possibilità per prendere meglio la mira.
Poi se un giorno un arco tecnologico di nuovo conio, potenziasse così tanto il corpo da cancellare la ferita, allora passeremo al transumanesimo. Ma qui e ora, mezzo cionco e pre umano com’ero, ho pensato che nel frattempo una buona mossa sarebbe accettare i nostri dei, il Tempo e il Caos: sono arco e ferita. Non siamo così speciali, controlliamo poco e niente, sei in piedi, giri gli occhi e sei in ginocchio. Non c’è onnipotenza che tenga davanti al Tempo e al Caos.
Possiamo abbandonarci al Caos, perché contiene la vita (in principio era l’ordine e la vita è possibile in una situazione particolare di Caos). E possiamo non sprecare il Tempo. La grande ossessione di Proust, recuperare il tempo perduto. Come si recupera? Certo, attraverso il corpo, con la memoria involontaria, sentire, cioè, è la strada principale per capire. Ma per sentire ci vuole un allenatore che potenzi i sensi. L’arte, la creatività, la scienza, qualunque nome vogliano dare a quella attività umana che ragiona sull’arco e la ferita (trasforma la ferita in un arco e un arco in uno strumento d’ analisi), questa attività alleggerisce il corpo e potenzia i sensi: rende la vita degna di essere vissuta.
Tornando a casa, piano piano, con le ginocchia sbucciate, ho pensato che poi Velasco ha preso a cuore la questione ricevitore, alzatore, schiacciatore. Ha detto che il buon schiacciatore è quello che non parla della battuta, la risolve. Come dire, cerca di fare del suo meglio con il materiale che ha: come chi cerca di alzare una persona da terra, anche se non si ci sono le condizioni ideali, per riportarlo in gioco. Dall’altra parte non c’è niente che sia ideale. La solita vecchia storia, noi costruiscono strategie adattative (ma così, a come viene) e tutto questo mentre la partita finisce, pure il campionato, l’Italia, l’Europa, il vecchio e nuovo mondo, il sistema solare, la galassia, l’universo.
Che possiamo fare? Usare questo nostro tempo e questo particolare caos non per chiudere ma per aprire, forse è il miglior modo per sentire la grazia del vespro che ti tende la mano- così potente, così fragile.