Vecchio e nuovo mondo
Mi ricordo un’altra notte angosciosa, simile a questa e chissà se c’entra, questa con quella. L’estate del 1982 fu per molti spensierata. C’erano i Clash, il riff di chitarra di Should I Stay or Should I Go. Poi i mondiali, i cortei, i colori, l’ubriachezza di certi clacson. E alcuni abbracci, lunghi, saltellanti.
Estate spensierata, ma non per me, gli eventi accumulati durante l’anno precipitarono (come in un imbuto) e così nello spazio di una notte estiva provai un’angoscia fortissima, roba da piegarsi in due.
Ero stato rimandato. Non in una, non in due, nemmeno in tre, ma in quattro materie: matematica, fisica, italiano e latino. Responsabilità condivisa con la professoressa di matematica. A inizio anno mi aveva interrogato alla lavagna: proiezione sull’asse delle ascisse. E la sbagliai. Confondevo ascisse con ordinate.
Un classico della dislessia, mi disse molti anni dopo una logopedista, facile da risolvere: la y ha il gambo lungo verticale e assomiglia un po’ ad un soldatino sull’attenti, la x è l’asse orizzontale e si chiama ascissa: sss sss, senti? è sibilante come un serpente che striscia a terra.
Però a quel tempo i logopedisti non erano di moda e la professoressa rideva. Più rideva e più ridevano tutti e più mi sentivo umiliato. Desideravo sedermi al banco e non alzarmi mai più: e così fu (e qui c’è la parte mia di responsabilità mia), non mi alzai più, ma sì, preferisco prendere impreparato da seduto che essere interrogato alla lavagna.
Finché quella notte, il 5 luglio, dopo la vittoria sul Brasile e i canti, i balli, il riff di Should I Stay or Should I Go, mi sentii male. Come se avessi avvertito il colpo solo allora. Nel buio della mia stanza, ero invorticato greve: ma chi sono, cosa diventerò? Ci sarà una voce che mi contempli? Un insieme che mi definisca? Macché. Il buio lo vedevo arrivare, una nebbia vaporosa che scendeva dal cielo.
Dopo, poi, dopo sì, certo, dopo molti anni, avrei definito meglio quella notte, certo, ovvio – avrei spiegato a me stesso – provai una sensazione di inadeguatezza ampia. Il mondo che conoscevo, e sì anche la spensieratezza, i balli i canti, quel mondo si era adombrato (poi 4 materie a settembre, un’estate saltata, quante ancora me ne restavano?) e quello che appariva in sottofondo mi coglieva impreparato.
Ma questo, appunto, dopo.
Quella notte la mia finestra sembrava un uomo con le braccia spalancate, vieni, diceva, vieni, è un attimo, la vita è insensata, pensi che sono ordinate e invece sono le ascisse, è sempre così. Should I Stay or Should I Go? Comunque abitavo al secondo piano, non così alto.
Se scendete sotto mia casa verso le tre di notte potete guardare l’orizzonte, cioè piazzale Dunant, si intravede dopo un chilometro e passa di via di Donna Olimpia. Saranno gli olmi che gettano ombra su ombra, sarà il silenzio, sarà che è rimasto solo il vento, sarà questo o altro, ma ora, con più coscienza e sicurezza di quell’estate del ’82, posso dire che il mondo che finora abbiamo abitato si sta adombrando.
Non vogliamo pensarci e infatti io non ci penso, ma sono sceso di notte (e nemmeno so perché) e sapete com’è il motore del trauma? Non smette mai di funzionare: come allora (paralizzato) vedo svanire il vecchio mondo e non capisco cosa sta nascendo. Quali sono le ordinate e le ascisse?
Diciamo che quello era un mondo (ancora) ingiusto ma strutturato sulle relazioni. Ma qui e ora? Su questa lunga strada deserta? A parte che potrei essere già morto (forse domani lo annunceranno), ma voglio dire, sono un scrittore, racconto le relazioni. Il mondo si basa su questo: ci si guarda e ci si abbraccia, ci si seduce, ci si inganna e tutto il resto del corollario, gli incontri, gli sguardi, i discorsi, gli avvicinamenti i minimi spostamenti di umore. Che belli che sono.
Ma domani? Vedrò una persona sul mio stesso marciapiede. Cambierò marciapiede. E se scorgerò un viso? Abbasserò lo sguardo. Cosa dovrei guardare? La mascherina? La paura, l’immobilità? Cosa dovrei sentire? I sensi di colpa di essere un potenziale infetto? Mettere in atto comportamenti sbagliati? Aggregarmi? Perdermi nella calca?
Dal punto di vista di uno scrittore mi accorgo che da questa notte ci sono i romanzi storici, cioè quelli scritti prima di marzo e romanzi ancora da scrivere, dopo i noti DPCM.
Se scrivo una storia dove i personaggi si incontrano nella maniera tradizionale, sto scrivendo un romanzo storico, vero? Dunque il mondo prima del Covid-19 – io poi, purtroppo, non vado troppo d’accordo con i romanzi storici. Se voglio scrivere una storia dopo i DPCM devo indovinare, sentire, descrivere il nuovo mondo che si sta formando, appunto: mascherine, protezione, ossessione per l’igiene, gel per mani, alcol puro, paura del contagio, insomma spaventosa voglia di purezza, sensi di colpa, confusione. Dunque immobilità: che mondo è? Se incrocio una persona torno a casa e sento già il mal di gola.
Da non credere, prima bisognava colonizzare Marte per scrivere fantascienza. O sganciare (in maniera complicata) la Luna dalla sua orbita o andare ventimila leghe sotto il mare.
Ora è un attimo, scendo giù e sono nella fantascienza. Non c’avevamo pensato (tranne il grande Kafka). Diamo un’occhiata ai vari Black Mirror, lì la paura è la tecnologia, i robot, cose così. Però anche lì, i vecchi e tanto cari androidi si incontravano e si amavano, e senza le mascherine. Nel modo post Covid-19 le persone si incontreranno più? I nudisti avranno mascherine, no? Pare di sì. Gli attori porno? Pare di sì. Capite l’angoscia? Magari non stavamo bene nel vecchio mondo, ma perlomeno riuscivano a raccontarlo, cioè ordinarlo secondo la mappa solita, le ordinate sono assi verticali mentre le ascisse sono orizzontali. Questo che si profila è un mondo assurdo, scarpe Gucci e guanti di lattice monouso faranno mai pendant? E porsi il problema non è assurdo?
Poi queste sono discussioni (un po’ futili) tra scrittori. Si tratterà di affrontare un mondo fantascientifico sì, ma perché traumatizzato, altro che. Ancora più diviso tra ricchi e poveri. Su via di Donna Olimpia l’eco si sente, lo porta il vento, un vento leggero che stanotte accarezza gli olmi ma rischia di diventare tempesta. Basta ascoltare la voce dalle case popolari del civico trenta. Nemmeno tanto simbolicamente quelle abitazioni sono invorticate grevi. Ci illustrano l’andamento che gli esperti cominciano a codificare, una famiglia su quattro cadrà in povertà (OCSE), il 30% della famiglie con minori è già a rischio povertà (Eurostat). Formazione didattica online, quella poi, piena di problemi, minimo a due velocità. Nuovi poveri per alfabetismo. Il New York Times faceva notare che i college americani davano una falsa impressione di democrazia, sì, tutti uguali nelle camerate, poi quando gli studenti, causa chiusura, sono tornati a casa e ci si è spostati sulla didattica on line, ecco apparire gli sfondi classisti, da un parte i ricchi nei bei salotti, dall’altra parte i poveri nei camper.
Una notte così annuncia un modo nuovo e traumatizzato. Qualcuno ha le coordinate?
Bessel Van der Kolk è uno che ha studiato molto bene il trauma: il trauma è separazione (dal mondo che conoscevi e amavi) e tentativo di ricomposizione. Frammentazione e (tentativo di) ricomposizione. Per questo ha dinamiche particolari. Il tuo io si frammenta, fa fatica a ricostruirsi. Per questo chi ha subìto un trauma non riesce a raccontare il suo trauma secondo un meccanismo cronologico. In genere le storie liete vengono narrate seguendo un arco classico, inizio, medio e fine. I traumatizzati hanno invece un diverso approccio. Non potendo andare direttamente in fondo alla buca, per il troppo dolore – anche perché in genere ci si paralizza, o si fugge o ci si distrugge per non pensare all’evento doloroso – arrivano (se arrivano) al punto, attraverso flashback, sensazioni, impressioni, odori, atmosfere o magari rivivendo un evento che gli ricorda il trauma. Ne consegue che per nei punti cruciali, cioè quando i personaggi si avvicinano al trauma, viene meno la cronologia.
Sarà così? Racconteremo impressioni, allucinazioni, incubi, depressioni senza il classico sistema cartesiano? Se sì, dovremmo occuparci della paralisi, del gelo, dell’alienazione, dello straniamento, della povertà.
Però è importante raccontare. Serve un modo nuovo per nuove coordinate. Ritrovarsi, sì. Non si diventa migliori dopo un trauma. Almeno, non è scontata la redenzione.
La paura, e tutto quello connesso a questa emozione, è notturna, pervasiva, angosciosa. Ci si incanaglisce, ci si chiude sé, nella propria coorte, l’altro è un nemico, tu sei puro, lui no. Ne abbiamo visti di momenti così, poco edificanti. Vince il familista mica il cosmopolita. Vince il piccolo e angusto ma sicuro spazio, mica il grande mare della conoscenza. Ulisse affonda e la nave al massimo fanno il giro del golfo.
Poi, certo, se sei Kafka (Kafka aspettava il buio per poter scrivere, il buio per immergersi a fondo e studiare la paradossale natura umana) allora puoi trarne qualche insegnamento da notti siffatte, in caso contrario dubito che verrà fuori una gemma.
Se quella notte del 5 agosto 1982 ho smesso di guardare la finestra aperta lo devo prima alla musica e poi a un poeta. Ascoltai un brano dei Joy Division, Atmosphere. Iam Curtis aveva risolto il dilemma, se n’era già andato, che peccato. Però l’aveva scritto e cantato, c’aveva avvertito. Che non bisognava camminare in silenzio, sì guardare il pericolo, e il pericolo era ovunque, come la confusione e illusione, ma non andare via.
Ascoltai il brano, mica solo una, tutta la notte, in loop. Sdraiato sul pavimento, le cuffie al massimo volume. Mi riconciliai col buio. Poi quando arrivò la luce mi misi a studiare. Sfogliai l’antologia di italiano e notai (incredibile, mai vista prima) alcune poesie.
Una poeta francese. Che – diceva la nota introduttiva – aveva scritto tutto (e rivoluzionato tutto) in 3, forse 4 anni, dai 16 ai 19, dai 17 ai 20 anni, e poi aveva girato le spalle alla poesia, completamente. Anche lui se n’era andato ma prima ce l’aveva detto, il da farsi, altro che.
Lessi tre poesie. Le imparai a memoria, immediatamente, mai accaduto (e per anni una di queste le ho ripetute prima di addormentarmi, come una preghiera laica). Alcuni incipit: non si può essere seri a 17 anni quando i tigli della passeggiata sono in fiore. Oppure: Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate; E anche il mio cappotto diventava ideale; Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele; Oh! quanti amori splendidi ho sognato! O quell’altra: che parlava di attraversare i campi di grano durante le sere azzurrine d’estate.
Ma va fa n c’culo, cominciai a pensare, ma va fa n’culo, ripetevo con impeto, ogni ora (un’altra preghiera laica). Va fa n’culo alla professoressa, alla scuola, alle antologie, alla cupezza, all’angoscia, all’immobilità, alla paura.
Ha ragione Arturo Rimbaud. Ho 16 anni – pensai – Rimbaud alla mia età era fuggito da una provincia bigotta, a piedi, verso Parigi. L’ha fatto lui, devo, posso farlo anche io. Mi devo alzare e andare (devo a Rimbaud il buon esame a settembre, in italiano, meno in matematica), va fa n’culo se il cappotto è sfondato, e sì, va fa n’culo, andare, rischiare (inciampare, cadere) per rispetto ai tigli fioriti e alle sere azzurine d’estate.
A Roma, non lo sapevo, ci sono 60 specie di uccelli. E nel silenzio del lockdown si sentono tutti, a partire dalle 4 di mattina. Cantano. Perché cantano? Per attirare le femmine, è la stagione degli amori: relazioni, un classico. Mi ha fatto piacere ascoltarli, una musica riconciliante. Mi ha stupito, poi, anche il sole: non avevo mai notato come si posa sugli alberi, sembra un corteggiamento. E certi fili d’erba che sono nati tra le buche? Un modo per abbellire o per render soffici le cadute. Ho sentito infine l’odore del pane. In tutto questo buio c’è qualcuno che fa il pane: incredibile, poi uno non ci pensa, quasi una cosa epica. Il pane si spezza in due e si mangia in tanti, un gesto antico, uno dei primi della specie umana, come seppellire i morti, un altro modo per prolungare la convivialità: chi porta pane porta pace, dissero quelli che conferirono il Nobel per la pace all’agronomo americano, Norman Borlaug.
Saremo coraggiosi? Analizzeremo il nostro trauma e porteremo pane a un mondo nuovo, in guerra, e come noi traumatizzato?
Che dire? Ma sì, andrei. Mica da solo, tutti insieme. Un modo per fare i conti col trauma. Cos’è la vita? Desideri, cose, lotti per ottenerle, a volte le ottieni altre volte no, poi si muore. La morte è una costante, e il trauma è una forma di morte prematura, raggela prima del tempo. Quindi la vita è un accumulo di traumi, separazioni e (tentativi di) riconciliazione. Ma significa (il coraggio) prendere forza da notti angosciose. Non certo ideali. Ma d’altra parte cos’è ideale? Le nostre barche come quella di Ulisse prendono acqua, il tempo passa, il cappotto è sempre sfondato e i tigli fioriscono e sfioriscono: bisogna passarci sotto comunque, si chiama avventura, o coraggio, o l’uno e l’altra, ti fanno notare e conoscere un sacco di cose.
Ps. la poesia di Rimbaud si chiama Sensazione. Non mi sembra che abbia confuso i versi, però vabbè anche se fosse il senso è quello di cui sopra:
Le sere azzurre d’estate, andrò per i sentieri, Punzecchiato dal grano, a calpestare erba fina: Trasognato, ne sentirò la freschezza ai piedi. Lascerò che il vento mi bagni il capo nudo. Non parlerò, non penserò a niente: Ma l’amore infinito mi salirà nell’anima, E andrò lontano, molto lontano, come uno zingaro, Nella Natura, – felice come con una donna.