Un po’ di cose sull’agricoltura del Sud

Di recente un bel saggio di Frank Viviano sul National Geographic analizza il modello Olanda, ovvero, piccolo è bello. Ebbene sì, è bello: ma a determinate condizioni. Immaginate di dover rappresentare la produzione di pomodori (nostro antico vanto, vanto che ci fa dire: non ci sono più i pomodori di una volta) con degli edifici. Più produci più l’edificio è alto. Ebbene, così, a naso, secondo voi quanto produciamo noi, quanto la Cina, quanto l’America? Provate a seguire il vostro istinto e disegnate. Io per esempio avrei fatto così: un grattacielo altissimo per la produzione degli USA, un palazzo di 40 piani per la Cina e via via edifici sempre più bassi l’Italia, l’India ecc. L’Olanda? L’Olanda nemmeno l’avrei considerata. Che vuoi farci, sono solito vederla dall’alto, quando l’aereo sorvola i Paesi Bassi, e che vedo? Tutte serre e poca terra e strutture idrauliche per conservare la distanza tra acqua e terra. Ebbene, ci credete che il grattacielo appartiene all’Olanda? Ci credete che, in rapporto alla superficie coltivata, gli Olandesi hanno un grattacielo di 100 piani e gli USA, la Spagna, appena 10? Noi stiamo a 5. Ci credete o no che questo paese nel giro di trent’anni, mentre noi rimpiangevamo i sapori di una volta è riuscito a diventare il leader al mondo per la produzione di pomodori e non solo? Come mai? Si è innestato un rapporto molto proficuo tra un innovativo istituto di ricerca, il WUR e le centinaia di agricoltori. Lo scambio ha fatto sì che venissero scoperte, testate e applicate su piccola scala tecniche agricole che in genere si usano su larga scala (agricoltura di precisione, tecnologia all’avanguardia, coltivazione fuori suolo, ecc). Il risultato che in queste serre si producono ottimi prodotti con basso investimento energetico. Per fare un esempio un acro (meno di mezzo ettaro) di insalata in serra produce quanto 10 acri in campo e non è finita: si riducono del 97% gli agrofarmaci. Questo piccolo paese è cosciente di una cosa: entro il 2050, la Terra ospiterà fino a 10 miliardi di persone. Se non si raggiungono massicci aumenti di produzione, combinate con riduzioni massime dell’uso dell’acqua e dei combustibili fossili, un miliardo di persone potrebbero affrontare la fame. Così gli olandesi, invece di affidare la soluzione di questa sfida a improbabili e vetusti opinion maker hanno responsabilizzato e finanziato la ricerca scientifica: piccolo istituto, piccole star up, piccole serre. Risultato? Un piccolo passo per il singolo contadino un grande passo per l’umanità agricola. Ma non di Olanda parliamo in queste intervista. Voglio dire per contrasto (tenendo presente il modello Olanda) esaminiamo alcune potenzialità dell’agricoltura italiana, di quella del sud e una serie di problemi che prima o poi bisognerà affrontare: altrimenti a forza di parlare delle ricette delle nonne dimenticheremo il cibo e sapori che i nostri nipoti potranno (dovranno) assaggiare.

Ciao, chi sei?

Sono Fernando Antonio Di Chio, agronomo che opera in provincia di Foggia.

Vieni dal sud, già immagino la tua storia…

Bè, è comune a molti colleghi, sono figlio di agricoltore, ho seguito le orme paterne dedicandomi all’agricoltura. Nella vita ho fatto varie esperienze in agricoltura e pertanto posso dire di aver acquisito non poche conoscenze.

E sei soddisfatto delle tue scelte professionali?

Il ruolo che oggi l’agronomo riveste in campo agricolo è spesso sottovalutato o poco noto, questo lo vedo quando parlo con persone che non sanno nemmeno cosa sia realmente un agronomo e in questi casi senza perdermi in inutili discorsi, mi definisco un “dottore delle piante”, termine che coniai per mia figlia, che a sei anni, aveva difficoltà a pronunciare la parola agronomo.

Ti sembra una definizione di più facile comprensione?

Una persona che mangia un qualsiasi frutto non è consapevole che per produrlo, oltre alla figura dell’agricoltore, c’è sempre la figura di un agronomo che è intervenuto in una delle tante fasi di produzione.

Ok, allora, dottore delle piante, facciamo un po’ di anamnesi del territorio, cosa si coltiva al sud?

Potrei rispondere più facilmente dicendo cosa non si coltiva, considerando che da sempre al Sud sono praticate un vasto numero di colture, che spesso si identificano con il territorio, come accade ad esempio con le cipolle di Tropea o il pomodoro Pachino siciliano.

Vero, ma nello specifico?
Da pugliese il mio primo pensiero va ai 4 milioni di tonnellate di frumento duro prodotte in Italia dei quali circa l’80% sono prodotti appunto in Puglia e Sicilia, ma ancora penso all’olivo coltivato in Puglia che da solo copre il 38% della superficie nazionale pari a oltre un milione di ettari coltivati e all’uva da tavola la cui produzione italiana è pari a 14 milioni di quintali, 12 milioni dei quali si producono in Puglia e Sicilia ed ancora quella da vino, eccellenza italiana che trova spazio in tutta la realtà meridionale.

Grano, olio, vino e…
Ortaggi: esempio il pomodoro da industria italiano, la cui maggior produzione si concentra principalmente in provincia di Foggia con superfici che superano annualmente i 18.000 ettari.

Sono colture tradizionali in un certo senso…
Ma anche innovative, esiste una capacità tutta meridionale nel praticare nuove colture, come è accaduto ad esempio con l’asparago un tempo poco diffuso in provincia di Foggia ed oggi coltivato su 2200 ettari da cui si ricavano circa 150.000 quintali pari a un terzo della produzione nazionale.

Il paesaggio agrario visto dall’alto, in effetti, è variopinto.
Da meridionale, provo sempre piacere quando percorro la strada litoranea che collega Manfredonia alle saline di Margherita di Savoia, dove gli ortaggi come cipolle, patate e carote vengono coltivati su lembi di sabbia rubati al mare (gli arenili), oppure quando in un’area molto ristretta in prossimità di Candela al confine con la Campania mi trovo di colpo immerso in una campagna in cui su un piccolo areale, di circa 40 ettari, vengono coltivate le mele, coltura che si identifica con il Nord ma che trova spazio anche in molte regioni del Sud come accade con la nota mela Annurca campana.

Eh, l’Annurca…la mela della mia infanzia, segnava la fine dell’estate…comunque..ad agricoltura reale corrispondono problemi reali, quali sono?
I problemi presenti sono tanti e il rischio più grave nell’elencarli è cadere nell’ovvietà e nel vittimismo, il che darebbe un’immagine dell’agricoltura sbagliata, perché in realtà come già detto esistono delle eccellenze tutte italiane a livello agricolo che molti altri paesi ci invidiano.

Premessa accolta, vai

Il primo vero problema dell’agricoltura italiana ed europea è stata una politica assistenziale, fatta di contributi a pioggia che però lentamente ed inesorabilmente sono stati ridotti e hanno portato, come ovvia conseguenza, ad un manifesto malcontento da parte degli agricoltori. In pratica si può paragonare gli agricoltori a un figlio viziato a cui per anni non è stato mai negato nulla, fino a quando le difficoltà finanziarie, non hanno costretto i genitori a negargli il superfluo ed ecco quindi scattare la ribellione, con l’aggravante che ad una riduzione dei contributi comunitari, si è aggiunta anche una maggior volatilità dei prezzi dei prodotti agricoli, legata ad un mercato ormai globalizzato in cui frumento o altri prodotti agricoli, possono arrivare a più basso costo da altri paesi, incidendo gravemente sul prezzo finale pagato all’agricoltore italiano.

Mi fai anche qualche esempio agronomico?
Sì, volevo soffermarmi su un aspetto: la madre di tutti i mali dell’agricoltura italiana….

Vai
La facilità con cui chiunque si definisce esperto di agricoltura, anche se in realtà ha una laurea in pedagogia.

Cioè, l’agricoltura è spiegata (male) al cittadino da chi non ne sa molto?
Non è raro leggere di pesticidi, gliphosate, micotossine, ma chi ne parla spesso è tutto tranne che un tecnico, può essere un medico, lo chef del momento o un giornalista in vena di scoop. Ecco quindi che a differenza di altri settori in cui a parlare sono sempre tecnici (penso ad esempio alle tragedie quali il crollo di un palazzo, in cui non viene chiaramente chiesto ad un medico di parlare ma si cerca un ingegnere), in agricoltura a parlare viene chiamato chiunque.

Problema globale, pare. Esempi specifici che ti hanno colpito?
Uno eclatante riguarda il caso Xylella in Salento, rammento che quando si iniziò a parlare della possibilità di estirpare le piante infette, ci fu una mobilitazione generale ma non solo di tecnici ma anche cantanti, attori, politici in cerca di consensi. Rammento che all’epoca vennero diffuse le più fantasiose notizie sul motivo per cui si era diffuso il batterio, si accusarono le multinazionali, si fecero concerti a favore dei poveri agricoltori vittime di un complotto e il batterio continuò a diffondersi.

Per lavoro, sono stato uno dei primi a vedere quegli olivi, svariati anni fa, ricordo un collega quasi in lacrime perché non c’era altra soluzione: bisognava abbattere per salvare
Infatti, il risultato è che oggi la Xylella sta diventando una seria minaccia per tutto il comparto olivicolo pugliese, poiché non essendo stato controllato si è diffuso e tutti coloro i quali all’epoca si abbracciavano gli alberi per protesta o facevano concerti e interviste, ora sono impegnati in tournee per promuovere il loro disco, mentre i politici cercano nuovi scoop per le imminenti prossime elezioni.

Oltre la Xylella?
Oltre all’esempio della Xylella che potrebbe mettere in ginocchio l’olivicoltura pugliese, penso a quanto sta accadendo ora con il gliphosate, tacciato di essere cancerogeno, penso alla visione miope dell’Europa nei confronti degli OGM, penso a tutti quelli che danno dell’agricoltura una visione errata additando gli agricoltori come i principali colpevoli dell’inquinamento e professano invece un’agricoltura biologica o peggio biodinamica, in cui a loro dire la chimica viene eliminata e in cui invece la chimica entra dalla porta di servizio o viene ben nascosta da certificazioni false.

A proposito di certificazioni, sei stato ispettore del biologico, vero?
Si è stata una delle mie prime esperienze lavorative, ero giovane e pieno di entusiasmo e affrontai l’impegno di ispettore con tutta la buona volontà, ma venni smentito dai fatti.

Ci racconti la tua esperienza?
Il lavoro di ispettore è quello, per chi non lo sapesse, di verificare che gli agricoltori adottino tutte le pratiche previste dal regolamento comunitario, in pratica si opera per nome e per conto di un’Ente certificatore (in Italia ne esistono più di venti), autorizzato a vigilare sull’agricoltore. La cosa che mi piace sottolineare, tipico problema tutto italiano, è che il controllore, ossia l’Ente che certifica l’azienda viene pagato dal controllato. In pratica come avrebbe detto mia nonna è come chiedere all’acquarulo (l’uomo che un tempo vendeva l’acqua per strada), se l’acqua è fresca. La mia non vuole essere una polemica, ma sicuramente il fatto che ci sia un’Ente certificatore pagato dal controllato, mi porta a pensare che a volte non si riesca ad essere sufficientemente obiettivi nel prendere decisioni.

Possiamo dare un po’ di numeri sul bio?
In Italia secondo il SINAB si è giunti a convertire in biologico 1.795.650 ettari con 72.154 operatori, ammettendo un costo minimo per ettaro di almeno 30 euro (cifra in difetto e non in eccesso), si ha un volume di affari superiore a quasi 54 milioni di euro, il che aiuta a comprendere come l’interesse per il bio non è solo un fatto ambientale…ma posso aggiungere altra cosa tecnica…

Vai, qui abbiamo lettori molto tecnici
Una delle cose più paradossali che ho notato, riguarda l’uso del seme.

Spiega, io non sono così tecnico

Quando si coltiva in bio ogni mezzo tecnico deve essere ammesso in bio, quindi anche il seme dovrebbe provenire da aziende biologiche, ma

Ma?
Un agricoltore che non vuole acquistare seme biologico, chiede una deroga. Se un cerealicoltore che deve seminare del grano ma non vuole acquistare seme biologico perché costa di più di quello convenzionale, fa una semplice richiesta al proprio Ente certificatore adducendo come motivazione che non è riuscito a trovare quella varietà in bio, in questo modo riceve il permesso di acquistare seme convenzionale a un costo più basso. Tuttavia, torniamo sempre al punto di partenza: ossia l’assistenzialismo tutto italiano che appare anche nel bio.

Troppi contributi drogano il settore?
I Piani di Sviluppo Rurale sono orientati a erogare contributi a pioggia a chi pratica il biologico a discapito di altre misure, con la giustificazione che il contributo è un modo per compensare le mancate produzioni, in realtà ciò comporta soltanto la comparsa di imprenditori che trovano nel bio un modo di fare business, operando in modo illecito e non rispettando il regolamento imposto. Del resto le cronache nazionali si arricchiscono spesso di truffe legate al bio, l’ultima in ordine di tempo in Sicilia, dove si è accertata una truffa per oltre otto milioni di euro di falsi prodotti bio (fonte il fatto alimentare).

Ok, questo per le truffe, tuttavia sarei interessato a capire i problemi tecnici che deve affrontare un agricoltore bio, così per capire quanto reale essere il bio?
Sono molteplici, perché siamo sempre sotto il cielo. Il mio docente di entomologia agraria all’Università di Bari diceva sempre che il vero bio era possibile sono in serra, dove si era in grado di operare in un ambiente isolato.

Ma appunto siamo sotto il cielo
Pensa al grano bio: il grano è di per sé una coltura tra le più semplici da coltivare e necessita di poche attenzioni, eppure ho difficoltà a immaginare un grano bio per una serie di problematiche.

Mi butto, primo: il diserbo
Sì, il controllo delle infestanti, in un grano bio non è ammesso l’uso degli erbicidi, quindi questo presuppone l’adozione di tecniche agronomiche atte al controllo delle infestanti, un metodo ad esempio è adottare la tecnica delle false semine, ossia preparare i terreni aspettando la nascita delle infestanti e ripassarli nuovamente.

Efficace?
Però comporta un dispendio energetico notevole, con conseguenze anche sull’emissione di gas di scarico nell’atmosfera.

Poi?
Niente trattamenti fungicidi con prodotti chimici, ma purtroppo nel grano esiste un fungo molto diffuso (più al Nord che al Sud), detto fusariosi della spiga. Bene, questo parassita si sviluppa in fase di spigatura e si conserva sulle cariossidi, se non si attuano trattamenti di controllo, la sua peculiarità è quella di produrre sostanze tossiche una in particolare il deossivalenolo (la cui sigla è DON), altamente cancerogeno per l’uomo. Per tale motivo è più facile rilevare alti livelli di DON in un grano bio che in uno convenzionale, ancor di più se il prodotto finale è rappresentato da semole integrali, dato che il DON si concentra maggiormente nella crusca e meno nelle semole rimacinate. Questo per il grano, cioè una coltura in cui sono minimi i trattamenti necessari, immaginiamo cosa significa produrre uva biologica o peggio pomodori biologici, la quantità di trattamenti con prodotti ammessi quali rame e zolfo, sono talmente tanti che se consideriamo l’impatto sull’ambiente credo che avremmo una visione diversa del bio.

Va bene, però dai parliamo ancora un po’ di grano, anche se in convenzionale, ti va?
“La ricchezza è di quel popolo che avrà più grano, poiché i bimbi quando hanno fame non chiedono l’oro ma chiedono il pane”

Chi è?
Francesco Luigi Barelli. Il fatto è che vivendo in Puglia ho sviluppato un amore particolare per questa coltura (e tra l’altro, da foggiano sono orgoglioso di pensare che la varietà Cappelli è nata qui e l’opera svolta dal grande Strampelli continua ancora oggi grazie al lavoro meritevole svolto dai ricercatori del Crea di Foggia).

Andiamo al punto: che problemi oggi per il grano?
Primo? Economico. Un giorno un agricoltore mi disse che in pizzeria si era reso conto che una semplicissima pizza aveva più valore di un quintale del suo grano. Da sempre il grano è stata considerata una coltura povera, in effetti richiede un numero di giornate lavorative nettamente inferiori alla vite o a una qualsiasi coltura orticola. E tuttavia questo ha comportato per anni un’errata visione, in quanto vista la scarsa redditività del grano, si è sempre agito limitando gli interventi. Da circa un decennio però sono accaduti una serie di eventi che hanno portato ad un cambiamento di rotta, eventi che hanno inciso profondamente sia positivamente che negativamente sulla coltivazione.

Prima le brutte notizie
Ricordo un episodio. Crollo del prezzo del grano. Aggiungi che molte aziende in quegli anni producevano praticamente in perdita e aggiungi anche una drastica riduzione dei contributi comunitari. Come risolvemmo il problema?

E dicci
In modo semplicistico il problema. Ci fu una campagna denigratoria nei confronti dei costitutori di seme. Colpevoli con lo Stato di obbligare l’agricoltore a seminare grano certificato, ossia grano che per essere messo in commercio deve sottostare a numerosi controlli. Quindi, per placare gli animi si decise in modo salomonico, che per salvare la cerealicoltura bisognava lasciare libero l’agricoltore di seminare senza obbligo di usare seme certificato. Il risultato fu un crollo delle vendite del seme certificato, questo provocò una crisi dei sementieri che furono costretti a ridurre le vendite di seme certificato e la nascita di un mercato parallelo (ed illegale) di seme senza certificazione. Cito una nota dall’Assosementi?

Cita
Continuano a calare le richieste di certificazione di sementi di frumento duro in Italia e il rischio è che per la campagna autunno-vernina si riproponga la situazione vissuta lo scorso anno che evidenziava un impiego di seme non certificato superiore al 50% della superficie coltivata.A preoccupare è soprattutto il comparto del frumento duro, dove le richieste di certificazione ammontano ad appena 178 mila tonnellate, in flessione quindi del 12% rispetto a dodici mesi fa. Il dato è dunque allarmante, tanto più se si considera che il frumento duro è la materia prima da cui si ottiene la pasta, alimento principe della nostra dieta e simbolo di italianità nel mondo”.

Il seme certificato garantisce un buon prodotto
Non solo, ma l’uso di seme certificato fa in modo che parte dei proventi venga destinato alla ricerca (le royalties per intenderci simili ai diritti d’autore che si pagano sui libri), pertanto diminuendo l’uso di seme certificato diminuisce il contributo economico alla ricerca, la conseguenza di tutto questo è l’invasione di costitutori francesi che abilmente hanno trovato terreno fertile sul mercato italiano, tanto che oggi le prime varietà coltivate in Italia sono tutte frutto di genetica francese, paese in cui l’agricoltore che semina una qualsiasi varietà di frumento versa un contributo per la ricerca.

Quelli che si oppongono all’uso del seme certificato ci vanno giù duri, parlando di schiavitù, della necessità di lasciar libero l’agricoltore di seminare
Però il mantenimento in purezza di una varietà comporta dei costi, specialmente per una varietà antica, prendiamo il Cappelli che produce in media venti quintali ad ettaro a fronte dei cinquanta delle varietà moderne.

Prendiamo il Cappelli
Dopo anni di confusione il Cappelli è stato dato in distribuzione esclusiva ad una nota ditta sementiera italiana, la quale per evitare che qualche furbo potesse utilizzare il seme senza pagare le royalties, ha imposto che chiunque acquisti da loro seme di Cappelli, sia obbligato a consegnare solo a loro le produzioni, pagandole ad un prezzo ben più alto del grano comune. In definitiva ha costituito una filiera in cui ha garantito la tracciabilità delle produzioni. Vero che con un aumento dei costi di produzione chi lo produce deve obbligatoriamente venderlo a un costo maggiore ma sono contento che finalmente se avrò voglia di acquistare un qualsiasi prodotto contenente farine di Cappelli, io consumatore sarò garantito: almeno non si tratta di una truffa. Del resto e qui concludo, queste stesse persone che vogliono la libera circolazione del Cappelli, sono le stesse che spingono per l’etichettatura obbligatoria sulla pasta, in cui bisogna dichiarare la provenienza del seme, ora mi domando ma se io uso del seme che non sia certificato, quindi seme di cui non conosco la provenienza, che cosa scrivo sull’etichetta?

Che soluzioni intravedi?
Contratti di filiera. Tenuto conto che l’agricoltura è un settore in cui chi coltiva non è mai certo del prezzo che gli verrà pagato per un qualsiasi bene, con il contratto di filiera il pastificio garantisce all’agricoltore un prezzo minimo garantito a patto però che l’agricoltore si impegni a produrre qualità. Da un lato l’agricoltore riceve un premio per le produzioni di qualità, dall’altro è costretto a utilizzare tutti i mezzi tecnici idonei, quindi anche seme certificato per garantire tracciabilità delle produzioni.

Funzionano?
Per ora le filiere rappresentano solo un 20% della produzione di frumento duro nazionale e da sole non possono sicuramente garantire l’aprovviggionamento dell’industria molitoria che lavora circa sei milioni di tonnellate all’anno. E allora

Che succede?

Ecco riapparire lo spettro dell’assistenzialismo anche nei contratti di filiera, lo Stato italiano spinto dalle solite associazioni di categoria ha destinato un fondo di 10 milioni di euro per il 2018 e di altrettanti nel 2019 da destinare a chi sottoscrive contratti di filiera.Questo contributo è stato già erogato l’anno scorso garantendo un contributo massimo per ettaro di cento euro, che con quello di quest’anno è salito a duecento euro ad ettaro. Ora non sono mai stato una cima in matematica ma se lo Stato aumenta il contributo ad ettaro lasciando intatte le risorse, invece di incrementarle le filiere a parer mio le disincentiva. Infatti con cento euro a ettaro si garantiva il contributo a centomila ettari, con duecento si garantisce il contributo a soli cinquantamila ettari. Il solito problema tutto italiano ossia: se vogliamo indurre l’agricoltore a produrre qualità dobbiamo garantire un contributo, in pratica è come quella mamma che per indurre il figlio ad andare a scuola gli promette un giocattolo.

Secondo te invece
Io credo che per garantire un contributo equo e che avrebbe salvato tutta la filiera, sarebbe stato più semplice ripristinare l’obbligo del cartellino, garantendo una somma simbolica ad ettaro o persino un contributo indiretto dato ai costitutori che potevano poi riversarlo agli agricoltori riducendo i costi del seme certificato. Ma si sa questo non porta consensi e le elezioni si avvicinano, meglio allora promettere più soldi consapevoli che non potremo garantirli, tanto quando gli agricoltori riceveranno il contributo le elezioni saranno passate.

So che hai un sogno agricolo nel cassetto, vero?

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.