Chi è Bruno Mezzetti, che migliora le piante che mangiamo
L’agricoltura ideale (e irreale) fa un largo uso dell’espressione “naturale”. Qualunque cosa voglia significare (forse tutto, forse niente) il fatto è che la suggestione colpisce tutti noi. Anche io (che pur sono un tecnico) ne sono vittima. Spesso come strumento di difesa uso questa slide:
Mostra la differenza (in gradi) tra melanzane selvatiche (espressione più corretta e più scientifica e più precisa di naturale) e quelle domesticate. Ora, volendo seguire la suddetta suggestione qual è la melanzana più “naturale”? Quale dovremo scegliere per mangiare “cose naturali” e per seguire i ritmi della natura ecc. ecc?
Soprattutto, quelle selvatiche sono buone? Sicure? E se volessimo fare un esperimento mentale, cioè scegliere un parametro che definisca il naturale, su quale melanzana dovremmo focalizzare la nostra attenzione?
E ancora, una volta scelta quella che ci pare più naturale (lasciando perdere se è buona o meno) dovremmo lasciarla così per sempre? Impedire dunque qualsiasi tipo di evoluzione futura (che poi sarebbe una cosa davvero innaturale)?
L’agricoltura irreale presenta un sacco di complicazioni e fallace. Invece nell’agricoltura reale il miglioramento genetico è di fondamentale importanza. E utile. Perché garantisce (o prova a farlo, con test e metodologie scientifiche) non solo un cibo più sano ma piante capaci di adattarsi a varie problematiche, quelle che si verificano, appunto, in ambienti e contesti reali. Bruno Mezzetti è tra i nostri ricercatori più sensibili all’argomento: “miglioramento genetico”.
Ciao, ti presenti?
Bruno Mezzetti, professore Ordinario di Arboricoltura al Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari ed Ambientali (D3A) dell’Università Politecnica delle Marche. All’attivo ho numerose pubblicazioni scientifiche internazionali (138 su riviste internazionali – HI 25 / Scopus – e numerosi capitoli di libri, manoscritti e pubblicazioni non indicizzate), alcune relative all’applicazione di tecniche di miglioramento genetico e delle biotecnologie vegetali. Ho contribuito alla costituzione e diffusione commerciale di 5 nuove cultivar (una varietà di pianta coltivata ottenuta con il miglioramento genetico ndr), brevettate e con lo sviluppo e diffusione di nuove tecniche di coltivazione a basso impatto.
E questo per quanto riguarda il curriculum. Ci racconti il tuo percorso?
Sono nato a Medicina, paese della bassa bolognese, sono cresciuto nell’azienda di mio padre coltivando barbabietole, frumento, cipolle e patate. Mio padre con una Fiat 211 R (chiamata Piccola) è stato uno dei primi conto terzisti della zona per semine e trattamenti antiparassitari. Seguendolo spesso fin da piccolo ho conosciuto direttamente le “primavere silenziose” che descriveva la Carson, pur senza sapere chi era. Anni dopo mio padre se né andato per un tumore al polmone perché anche fumava troppo. All’università (Agraria) fui colpito dalla tecnica di propagazione in vitro delle piante, allora era considerata una nuova biotecnologia, perché semplicemente dava garanzia di produrre piante sane. Poi ho scoperto il miglioramento genetico e la possibilità di sfruttare le resistenze genetiche appunto per evitare la difesa chimica. Nel 1990, durante il dottorato, ho avuto l’opportunità di lavorare per un anno in diversi laboratori negli Stati Uniti con l’obiettivo di imparare ad utilizzare diverse biotecnologie tra cui anche l’ingegneria genetica per indurre resistenze a patogeni (in particolare resistenza a Phytophthora nel melo). Finii il dottorato con anche il sostegno del prof. Buiatti (Università di Firenze), che dopo il prof. Costantino della Sapienza, aveva iniziato a produrre piante geneticamente modificate. Subito dopo fui uno dei tanti (allora) che riuscì a continuare questo lavoro grazie alle borse di studio del Progetto MIPAF Biotecnologie, poi bloccato definitivamente/rovinosamente con l’arrivo del ministro Pecoraro Scanio nel 1998. Quasi un centinaio di ragazzi erano stati formati per sviluppare approcci biotecnologici utili a migliorare e a ridurre l’impatto delle nostre coltivazioni, quando a un tratto ci dissero che non servivamo più a nulla, era meglio continuare come prima: “continuare a spruzzare”. Una grande tristezza fu anche vedere che Buiatti, chi mi aveva prima convinto dell’importanza di questa tecnologia, d’un tratto rinnegò tutto e divenne la spalla “scientifica” di chi aveva deciso di fermare la tecnologia. Solo dopo più 20 anni ho avuto l’occasione di esprime pubblicamente la tanta delusione sul suo comportamento.
Secondo te quali sono i problemi dell’agricoltura reale?
Per l’agricoltura del XXI secolo il modello meccanica, chimica e genetica è da rivedere. Il mondo sta cambiando, ci sono una serie di sfide che l’agricoltura europea dovrà affrontare: i cambiamenti climatici, l’impatto sull’ambiente, le pressioni sulle risorse naturali, l’aumento della concorrenza e dei cambiamenti demografici. Pertanto, la ricerca in agricoltura è fondamentale. Anche perché il modello proprio perché i problemi sono complessi e interconnessi, per una migliore comprensione dei suddetti, sarà importante la convergenza delle conoscenze di diverse discipline. Ora, la politica delle sovvenzioni in agricoltura spesso è stata definita senza tenere conto dei risultati della ricerca scientifica in agricoltura e a volte anche dei principi base dell’agronomia, provocando spesso impatti molto negativi sui territori, sui sistemi di produzione e sulle strategie di mercato. In questo contesto si deve promuovere il passaggio da un’agricoltura della sovvenzione a un’agricoltura mirata all’innovazione, competizione e vera sostenibilità economica, ambientale e sicurezza alimentare. Ogni nuova tecnologia può avere un ruolo importante nel risolvere problematiche specifiche in agricoltura. Nessuna può essere esclusa a priori. Tuttavia, l’introduzione di ogni nuova tecnologia o sistema agricolo deve avvenire secondo un approccio di “filiera della conoscenza”, dalla tecnologia, all’applicazione e alla comunicazione all’opinione pubblica. Quest’approccio deve essere adottato per tutti i sistemi agricoli, anche quelli finora promossi senza una valutazione dei reali rischi e benefici (es. agricoltura biologica). Su questo principio si deve riprendere l’integrazione tra ricerca pubblica e sviluppo d’impresa a cui deve essere offerta una prospettiva reale di utilizzo, con protezione legale e valorizzazione commerciale dei prodotti ottenuti anche tramite l’applicazione di tutte le possibili tecniche biotecnologiche (vecchie e nuove).
Se ancora uno che non vuole solo “continuare a spruzzare”?
L’uso di prodotti chimici è ampiamente diffuso in tutti i sistemi agricoli, compresi quelli biologici e biodinamici (non cambia molto se sono naturali e non di sintesi, sono sempre prodotti chimici e tossici per l’uomo e per l’ambiente), ed è impossibile pensare di eliminarli totalmente ma si può solo tentare di sviluppare strategie per ridurne l’uso il più possibile. A questo fine ho sempre considerato fondamentale individuare nuove cultivar ad elevata adattabilità, ad ambienti e sistemi di coltivazione, e resistenza ai principali patogeni/parassiti, da adattare a pratiche agronomiche meno intensive e depauperanti, cosi come l’agronomia ci ha sempre insegnato.
Come si individuano queste cultivar ad elevata adattabilità?
Con le biotecnologie, vecchie e nuove.
Mi fai qualche esempio di tecniche tradizionali?
Con lo studio delle risorse genetiche e il miglioramento genetico tradizionale sono riuscito ad ottenere nuove cultivar ora diffuse a livello commerciale in Italia (Pesco e Fragola), in Europa, Usa, Canada, Cina e Giappone (Fragola).
Le nuove cultivar di fragola sono apprezzata per la loro diversa epoca di maturazione, qualità dei frutti e in particolare rusticità delle piante che appunto già resistono a diverse malattie. Più curiosa è stata la storia di come abbiamo rilasciato una cultivar di pesco. Un giorno un agricoltore della zona ci chiama per segnalarci che nel suo campo di Stark Sartun, una vecchia pesca piatta tomentosa e molto buona, aveva osservato un ramo con frutti dalla buccia liscia. Abbiamo innestato le gemme di quel ramo e verificato su nuove piante la produzione stabile ed omogenea non più di pesche ma di nettarine piatte con le stesse caratteristiche qualitative. D’accordo con l’agricoltore abbiamo rilasciato una nuova varietà denominata ‘Concettina’, dal nome dell’agricoltore. È questo un caso di modificazione genetica mediante mutagenesi naturale. Questa via è molto interessante ma essendo casuale non è facile da applicare per l’ottenimento di risultati specifici. Da quasi 20 anni mi sto impegnando anche nel tentativo di applicare le biotecnologie genetiche per risolvere i problemi non risolvibili con le tecniche tradizionali.
Ad esempio?
Agli inizi del 2000 ho collaborato con un gruppo di ricercatori italiani che erano riusciti a sviluppare una tecnologia genetica capace di favorire lo sviluppo dei frutti anche in assenza di fecondazione, mediante partenocarpia. Si era riusciti a dimostrare che con questo strumento genetico si poteva eliminare l’uso di fitormoni nella coltivazione in serra di pomodori, melanzane, fragola, lampone e uva da tavola. Dal 2000 al 2009 ho gestito uno dei pochi campi con piante OGM in Italia, l’unico mai fatto sulla vite. Con i risultati ottenuti presentammo un progetto di ricerca alla Comunità europea finalizzato alla diffusione di questa tecnologia. Il progetto fu bocciato non perché una tecnologia considerata a rischio ma con la motivazione che tale tecnologia se applicata avrebbe compromesso le attività delle industrie chimiche produttrice di fitormoni ad uso industriale. Da questa risposta si è consolidata la mia convinzione che la battaglia contro gli OGM è solamente finalizzata a proteggere le industrie chimiche che non vogliono perdere fette di mercato e allo stesso tempo consolidare il controllo totale delle biotecnologie in mano a poche multinazionali. Questi sono a mio parere i grandi burattinai dei movimenti anti-OGM.
E l’orto OGM?
L’orto OGM è stato distrutto nel 2009, erano scadute le notifiche e tutti (comunità scientifica per prima) si erano piegati alla seguente logica: meglio dire che le biotecnologie non servono cosi si possono avere finanziamenti. Non ho mai accettato questo atteggiamento dei miei colleghi e quanto possibile ho continuato queste ricerche, ottenendo nuove piante di fragola modificate per la resistenza a funghi e capaci di produrre frutti più ricchi di sostanze nutrizionali. Sempre in fragola, più recenti sono i risultati (stiamo lavorando alla pubblicazione) che dimostrano la capacità di modificare l’habitus riproduttivo delle piante rendendole rifiorenti, capaci di produrre fiori e frutti in modo indipendente dalle stagioni (carattere considerato importante per estendere la coltivazione di molte specie in ambienti diversi in risposta anche ai cambiamenti climatici). Tanto lavoro, molte soddisfazioni a livello scientifico ma con l’amarezza di non essere riuscito a trasferire in campo questi risultati.
Ora a cosa stai lavorando?
Il maggiore impegno di questi ultimi anni è stato dedicato al tentativo di indurre resistenza alla Sharka, un virus che ha distrutto la coltivazione delle drupacee (pesco, albicocco e susino) in diversi areali del nostro paese. A questo fine abbiamo messo a punto una tecnologia capace di bloccare il virus silenziando i suoi geni di replicazione. L’idea è quella di modificare il portinnesto rendendolo capace di produrre gli RNAi di silenziamento trasferendoli nella chioma cosi da rendere l’intera pianta e i frutti resistenti al virus. L’ipotesi è molto bella ma ancora non siamo riusciti a confermarla nel sistema pesco-Sharka per le difficoltà che si hanno nel modificare questa pianta. Speriamo di riuscirci prossimamente cosi da portare i risultati agli agricoltori che hanno subito i danni della Sharka, che forse riusciranno a far sentire la loro voce per chiedere di poter utilizzare queste nuove piante resistenti.
Mi fai vedere come lavori, in pratica?