Agli ecologisti fanno schifo gli uomini?
Eh, le belle giornate di lavoro nei campi. Tra l’altro, è sì vero che valuto i danni alle strutture e alle infrastrutture agricole (tutti questi smottamenti e frane e corsi d’acqua deviati) e ciò potrebbe incentivare un umore cupo e tuttavia il cielo terso e il sole e la luce, il terreno asciutto, i colleghi simpatici e competenti: questo insieme di elementi rende il lavoro interessante e piacevole – poi c’è poco da fare, l’agricoltura la si impara sul campo. Qui, appunto, sotto il cielo, sotto questa luce (le gocce d’acqua sospese pian piano evaporano e tutto si apre), tra fossi e pendi, da secoli, ogni cosa è uguale e ogni cosa è diversa.
E così, visto l’umore gioviale, a fine giornata un collega (che finora m’aveva parlato della prima guerra mondiale, eravamo sul Piave, e lui sembrava – visto il suo bagaglio culturale – un bravo storico e non certo un tecnico) mi dice: «ti va di vedere una cava naturalistica? Ecologica – specifica – siamo riusciti a drenare una grossa quantità di percolati solo con un canneto. Guarda: un’oasi di biodiversità».
«Certo che sì», rispondo. Del resto sono cresciuto a Caserta, luogo d’origine, matrice primordiale di tutte le cave del mondo. Oltre quelle legali (già numerose) se ne contavano 110 abusive in un territorio mica tanto vasto: la camorra prelevava abusivamente il materiale, così evadeva il registro del cemento. Da ragazzi, spesso in vena di lirismi e romanticismi sdolcinati, quando salivamo a Caserta Vecchia e ci posizionavamo sul belvedere, più che il sole al tramonto, più che il Vesuvio e l’area metropolitana, più che aerei che atterravano in un baluginio di luce (per noi giovani provinciali, niente era più speranzoso di un aereo), più che tutto questo, guardavamo le cave: che schifezza! E ci chiedevamo: ma un giorno si potranno mai riprendere? Ci sarà una tecnica all’uopo specifica?
In effetti un’oasi bellissima. Woow. Ho detto così. Non lo dico mai: woow. I canneti mi fanno questo effetto – ricordi in grumo, giornate passate in spiaggia a Baia Domizia, dune e canneti, mio padre che piantava l’ombrellone, partite a pallone fino a dopo il tramonto, l’ultimo bagliore prima del buio, un’emozione, pare, associata al sentimento di comunanza olistica.
La cannuccia di palude è consociata a varie piante palustri, e allora il giunco, il salice e la typha. Con questo semplice miscuglio avevano raggiunto un ottimo risultato, una cava sterile (estraevano argilla) era diventata un’elegante palude, e poi drenavano, eccome se drenavano, un sacco di inquinanti. Per non parlare della bellezza dell’infiorescenza a pannocchia e della quantità di animali. La biodiversità che c’è qui – mi diceva il collega – non la trovi da nessuna parte. In effetti.
Così vagando inebriato, un po’ su e giù per ponticelli e stagni e pensando a Caserta (visto che si potevano trasformare le cave! quanti tramonti avrei potuto vedere senza amarezza), ho preso una pannocchia da un campo di mais, lì nelle vicinanze. Era contaminata da funghi. Aflotossine, fumonisine, boh? Gran parte del mais – soprattutto in Friuli (90 mila ettari di coltivazioni complessive) e in Veneto – è attaccato dalla piralide, un lepidottero minatore. Scava, eccome se scava. In alcune stagioni si arriva a perdere il 10 per cento della produzione, anche perché è difficile e costoso combatterlo: con la chimica come ci arrivi in profondità? E soprattutto, la spiga che ha subito l’attacco della piralide minatrice poi facilmente viene parassitata dai funghi, che producono, appunto, le fumonisine. Tossine estremamente pericolose. Passano nel latte, non si degradano nel rumine degli animali. Per questo, per aumentare la sicurezza alimentare, va combattuta la piralide (con strumenti chimici, biotecnologici, organici, fate voi). Ho dunque detto: certo che bisognerebbe trovare una soluzione alle fumonisine. Volevo dire per la precisione: così come abbiamo salvato le cave ora dobbiamo salvare il mais. E giuro che non intendevo affatto parlare degli ogm: giuro, giuro!
Ormai pure Sunanna Tamaro lo sa: c’è una varietà di mais (ogm) che produce una tossina, derivata da un batterio bacillus thuringiensis (Bt). Il suddetto è il principe degli insetticidi in agricoltura bio (il Bt è stato scelto dai genetisti proprio per sicurezza ambientale dimostrata in decenni di coltivazione organica: a volte il bio produce innovazioni utilissime). La tossina è considerata naturale (bio appunto), innocua per l’uomo, e tossica per tre ordini di insetti: lepidotteri, coleotteri e ditteri. Allora, per sillogismo, se la pannocchia produce la tossina, la piralide mangia la pannocchia e muore. Invece, la coccinella (un coleottero) non la mangia e non muore: più biodiversità. Altrimenti (anche se coltivi in regime organico) devi buttare l’agrofarmaco (nel bio sarà a base di bt) nei campi, che, in formulazione spray, trasportato dal vento, uccide anche gli insetti utili.
C’è una polemica in corso sull’uso del mais bt, alcuni agricoltori vorrebbero provarlo, ma in tanti si oppongono, vabbè. Ma io giuro, giuro, che non volevo parlare degli ogm, anche perché non ne posso più, la discussione si polarizza, si fa ideologica, è un casino. Invece in agricoltura contano in risultati in campo, i tecnici che frequento io sono più prosaici, funziona o non funziona? Sì, no? Quanto e quando funziona? Studi e carte alla mano. Caso per caso.
Volevo solo dire quello che ho detto: certo che bisognerebbe trovare una soluzione alle fumonisine – così come per le cave ecc. E di certo non mi aspettavo che il mio collega rispondesse: «e perché? anche le fumonisine devono vivere: fanno biodiversità». «E il cazzo – ho risposto – sono tossiche, e possono provocare la spina bifida nei bambini. Ho un paio di amici medici che si rifiutano di proiettare durante i convegni le foto dei poveri bambini affetti da spina bifida». E nel tramonto, nella luce implosa, l’espressione del mio collega per un attimo è cambiata. Non era più sorridente, ma scura, come se obbedisse a qualcuno o qualcosa: «dovremmo decidere – ha detto – se è giusto che l’uomo debba coltivare di tutto. Perché la nostra impronta ecologica è veramente spaventosa, qui è tutto rovinato».
Tutto rovinato? E la cava naturalistica? Un attimo. Adesso non ho intenzione di deviare e mettere in caricatura il mio collega. Sì, ho scoperto che era cattolico, aveva tanti figli, ecologista convinto, e tuttavia non ho intenzione di descriverlo come un fondamentalista radicale. Tutt’altro: mangiava di gusto, si godeva la vita, si commuoveva ai racconti dei poveri caduti della grande guerra, mi ha ospitato a casa sua per cena e sia lui sia la sua famiglia sono stati gentilissimi, generosi, sono stato bene, ho riso, ho imparato un sacco di cose sulle tecniche di coltivazioni a sinistra e destra del Piave (saperi che ora posso vendermi come miei) e sulle trincee (saperi che pure posso vendermi come miei), quindi devo frenare quella parte di me aggressiva e con tendenza a cogliere solo quello che negli altri è spiacevole e riprovevole e mettere invece in ombra tutto ciò che è buono e gentile.
E infatti, c’ho pensato quattro mesi prima di scriverne. Avevo deciso di dimenticare, di chiudere l’episodio in uno scrigno neuronale e farlo morire lì, però quelle parole mi hanno tormentato la notte. La questione è: ma veramente per costruire un’oasi meravigliosa, ecologica dobbiamo salvare le fumonisine? Nelle tematiche ecologiche, tematiche alle quali dobbiamo (diciamo la verità) la sensibilità verso alcune questioni, c’è mica una sorta di odio verso tutto quello che l’uomo è, è stato e sarà? Agli ecologisti fanno schifo gli uomini?
Sto esagerando. Sono un ecologista ragionevole, un ottimista tragico, un pessimista moderno, mi piace la tecnica, stravedo per le innovazioni (soprattutto quelle che fanno risparmiare e riducono l’impronta ecologica), come scrittore penso che nel Grande fratello e nell’Isola dei famosi c’era qualcosa di buono, – narrativamente parlando – mi piacciono le oasi, mi commuovo per i canneti e gli olivi (soprattutto per quelli) e per il Natale. Davanti ad alcuni spettacoli naturali la ragione è un impiccio, lo so: di fronte a un tramonto non c’è discorso che tenga, conta solo l’intuizione e il silenzio e la capacità di percepire un mondo oltre i confini del tuo io. E dunque, così come rivendico la mia complessità interiore, così devo riconoscere che gli ecologisti non vogliono la spina bifida. Mi interessa capire se c’è qualcosa di malato, di pericoloso in alcune nostre ossessioni, come il desiderio di purezza.
Ragione è civiltà o mostruosità? Nicolas de Condorcet (matematico, filosofo, economista e rivoluzionario, morto in carcere, in circostante poco chiare: suicidio?), pubblicò una biografia di Voltaire (1789) – del resto era il suo eroe. Passò in rassegna tutti i progressi avvenuti durante la vita di Voltaire (1694/1778) e in conseguenza del suo impegno: la salute era migliorata grazie a pratiche di inumazione più razionali e alle vaccinazioni; il clero dei paesi soggetti alla religione romana avevano perso il suo pericoloso potere e avrebbe perso (prevedeva) la sua scandalosa ricchezza; la libertà di stampa era aumentata. In Polonia, in Scandinavia, in Prussia, nei territori della monarchia asburgica l’intolleranza religiosa era scomparsa e perfino in Francia e (udite udite) in Italia vi erano segni di miglioramento in tal senso; il servaggio sembrava in via di scomparsa nella maggior parte dei paesi europei; erano state introdotte varie e positive riforme; le guerre erano meno frequenti, i sovrani e i loro ordini privilegiati non riuscivano più a ingannare i sudditi, e (concludeva) in generale per la prima volta la ragione aveva cominciato a diffondersi sui popoli europei (citato nell’Età della gloria di Tim Blanning, Laterza). Steven Pinker scrive un elenco simile (moltiplicato per venti) nell’introduzione al suo libro, Il declino della violenza (Mondadori).
Quindi tutto bene. Potevamo goderci la civiltà. E invece il 25 agosto del 1749, Rousseau, alle due di pomeriggio, stremato dal caldo, cercando un inutile riparo sotto gli alberi diradati alla maniera francese (che non davano ombra, credo sia interessante capire il perché di quella tecnica di potatura), si stendeva per terra. Poi riprendeva il cammino, e per moderare il passo tirava fuori un libro, il Mercure de France. Una domanda (proposta dall’accademia di Digione, la migliore risposta avrebbe meritato un premio) l’aveva incuriosito: se il progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi o li abbia corrotti.
Rousseau entrò in trance (così ricorda in una lettera che scrisse a Malesherbes nel 1762): «Tutt’a un tratto mi sentii la mente abbagliata da mille luci, una folla di splendide idee mi si presentò con tal forza e in una tale confusione, che fui gettato in uno stato di indescrivibile sconcerto (…)». Bene, quando dopo mezz’ora si rialzò, si accorse che la giacca era bagnata dalle lacrime e improvvisamente capì la verità: il sistema di valori dell’illuminismo doveva essere capovolto, era stata la civiltà e non l’ignoranza, tanto meno la superstizione o il pregiudizio ad aver condotto gli uomini sulla cattiva strada. E rispose eccome a quelli dell’accademia di Digione: tentare di controllare o sfruttare la natura per migliorare il benessere materiale dell’uomo era sbagliato in linea di principio e letale in pratica. Tutti i rami delle scienze naturali avevano come matrice dei pericolosi vizi. L’astronomia nasceva dalla superstizione, la matematica dall’avidità, la meccanica dall’ambizione, la fisica da una vana curiosità. Pure la stampa aveva le sue colpe, poiché aveva consentito alle empie opere di Hobbes e di Spinoza di raggiungere l’immortalità. E concludeva la sua arringa con una previsione: gli uomini sarebbero stati (un giorno) così disgustati dalla cultura moderna che avrebbero implorato Dio di restituire loro «l’ignoranza, l’innocenza e la povertà, i soli beni che possono fare la nostra felicità e che siano preziosi al suo cospetto».
Così quando ora leggiamo la seguente poesia sappiamo da dove deriva: «se vogliamo andare avanti, bisogna che piangiamo il tempo che non può tornare (…) non basta rifiutare lo sviluppo (…) grazie a Dio si può tornare indietro (…) allora si rivedranno calzoni coi rattoppi, tramonti rossi su borghi vuoti di motori – e pieni di giovani straccioni tornati da Torino e dalle Germania (…) di notte si sentiranno i grilli, forse qualche giovane tirerà fuori un mandolino». Pier Paolo Pasolini, fatte salve alcune poesie, non mi ha mai commosso (ancora oggi, quasi ogni giorno, se devo ascoltare un reazionario scelgo Lindo Ferretti: vuoi mettere? E poi alla musica si concede la nostalgia, ma quella è una nostalgia dell’orale, del pre/scritto, dello stra/dire senza significato, ma è un altro discorso). Tuttavia la suddetta poesia (Significato del rimpianto, in Scritti corsari,) la trovate citata in cento corsi veloci di decrescita felice, nasce da Rousseau e dalla sua trance (quella del 25 agosto del 1749).
Le idee del filosofo romantico, di Pasolini e di altri grandi reazionari stanno attraversando la storia (italiana e non) da almeno 40 anni, trovando concordi molti intellettuali di sinistra (in genere benestanti e impegnati). Il compianto Paolo Rossi non la pensava così. Nel 1975 scrisse il saggio Fra Arcadia e Apocalisse: note sull’irrazionalismo italiano degli anni settanta, contro questa specie di sapere nostalgico, o pessimismo nostalgico che alcuni intellettuali provano e propagandano. Qualunque cosa tocchino diventa punto di snodo, momento topico, ultima difesa, resistenza, e dovunque aleggia la caduta di valori e l’incomunicabilità. (Rossi mi confessò una sera a Firenze che era estremamente legato a questo piccolo saggio, che gli portò molte critiche e vari fastidi, altro che ogm, ma nello stesso tempo era così orgoglioso d’averlo scritto.) Ci sarebbe da parlare anche dell’ape e dell’architetto, di Cini, del rapporto tra primitivismo e rozzo marxismo, ma credo nella sostanza che la diatriba si riduca allo scontro di cui sopra: scienza, progresso e civiltà, contro mistero purezza e autenticità. Sì, ragione contro trance.
Del resto cosa scrisse Alexander Pope per Newton, come epigrafe:«La natura e le leggi della natura giacevano nascoste nella notte; Dio disse: “Che Newton sia!”, e luce fu». Cosa disse Voltaire al funerale di Newton? È stato sepolto un re. E invece che disse Heinrich von Kleist di Newton? Che nel seno di una ragazza, avrebbe visto solo una linea curva, e nel suo cuore non avrebbe trovato niente di interessante della sua capacità cubica. Beh insomma, dai, simpatico, Kleist, sarcastico, ma non vero: Newton era un alchimista, nel suo corpo trovarono un sacco di mercurio, e poi conosco degli scienziati che pensano solo al sesso, altro che linea curva. E William Blake? L’arte è l’albero della vita, la scienza è l’albero della morte.
Quindi con il mio collega non ci dovrebbe essere dialogo? Peccato, sapeva un sacco di cose sulla prima guerra mondiale. Aveva dato il suo contributo all’oasi.
Jonathan Haidt però mi viene in aiuto con Menti tribali: perché le brave persone si dividono su politica e religione (Codice edizioni). Si potrebbe parafrasare: perché le brave persone si dividono su scienza e cultura umanista, su civiltà e purezza, su fumonisine e biodiversità, ogm e bio, insomma la numerosa sinistra reazionaria contro l’esigua sinistra progressista.
Haidt parte da questa tesi: la storia umana si racconta meglio attraverso i sentimenti. Alla base dei sentimenti c’è la morale e la morale si esamina con più precisione se si tiene conto della biologia evoluzionista e della psicologia cognitiva – due discipline che nel dibattito pubblico italiano latitano. Haidt è un innatista. Dicesi innatismo qualcosa di organizzato prima dell’esperienza, come la bozza di un libro che viene rivista man mano che una persona cresce. Valori e regole specifiche variano da una cultura all’altra. Tuttavia se vogliamo capire cosa c’è scritto nella prima bozza universale della natura umana, allora bisogna fare i conti con cinque principi. A partire da questi Haidt elabora nella seconda parte la coinvolgente ipotesi che dà appunto il titolo al libro: la morale crea sì vincoli di appartenenza ma acceca: abbiamo ancora menti tribali.
I cinque principi dunque. Principio protezione/danno. Sviluppato in risposta alla sfida di offrire protezione ai bambini, ci rende sensibili ai segnali di sofferenza del prossimo. Principio di correttezza/inganno, evolutosi in risposta alla sfida di raccogliere i frutti della collaborazione senza essere sfruttati, ci spinge a evitare o punire i truffatori. Principio di lealtà/tradimento, ci fa allontanare chi tradisce il gruppo cui apparteniamo. Principio di autorità/sovversione, ci rende sensibili ai segnali relativi allo status o al rango sociale. E infine principio di sacralità/degradazione, oppure purezza/degradazione, sviluppato in risposta al dilemma dell’onnivoro: quello che mangio mi appartiene (dunque è spesso irrazionalmente investito di sacralità) quello che rifiuto è impuro, lo devo allontanare (se lo assumo mi degrado).
La bozza è questa. A proposito di sinistra/destra, nelle verifiche empiriche Haidt scopre che i progressisti hanno una morale che fa affidamento solo sui principi protezione/danno e correttezza/inganno, e in genere sono sensibili alle novità, più intraprendenti e più attenti verso alcuni diritti. Mentre la destra attiva meno i primi due e più i restanti tre – e comunque il principio di autorità e sacralità resta più forte nei conservatori. Dunque, i conservatori nelle campagne elettorali hanno più modi per stabilire un contatto con gli elettori, perché attivano più moduli. Ma stiamo parlando degli USA. Diciamo così: il mio collega ambientalista che vota a sinistra attiva con più facilità il quinto modulo: sacralità/degradazione. Bisogna tendere alla purezza e costruire oasi perché la natura è sacra, e rifiutare l’uomo che con la sua impronta ha degradato e desacralizzato la natura. Io pure votavo a sinistra (dopo la furbata di Renzi non firmo nemmeno più una cartolina ai democratici) e probabilmente attivo di più i moduli protezione/danno. Meno sofferenze meno danni.
Ma le cose in effetti si complicano con questi moduli. Per esempio, nei fatti, la sinistra da una parte attiva i codici di protezione/danno, quindi è sensibile a temi e sofferenze globali, dall’altra parte, pensa solo alla sacralità (al guadagno) del proprio piccolo orto. In tanti siamo progressisti in teoria e nella pratica conservatori. Tanto è vero che i richiami alla sacralità della natura sono utilizzati sia dalla destra religiosa sia dalla sinistra spirituale, basta vedere le questioni agricole e ambientali, dove il richiamo alla purezza della natura è forte.
E anche io quando mi commuovo per ‘sto canneto attivo il modulo sacralità/degradazione. Posso percepire la meraviglia del canneto perché quell’oasi riporta il mio spirito in una condizione spirituale pre/civiltà. Allo stesso modo (per non sembrare troppo spirituale) quando sotto casa mia, di fronte il mio bar, la mattina presto stazionano cinque uomini di etnia sinti, insomma zingari, che fumano e bevono caffè e cappuccini in bicchieri di plastica e poi lasciano cicche e plastica sul marciapiede, in quel momento io attivo ancora il modulo purezza/degradazione. Nel senso che desidero che se ne vadano dal marciapiede – devo dire che alcune volte è capitato che io abbia messo sul marciapiede rifiuti ingombranti senza chiamare l’AMA, tanto i cinque zingari tempo un minuto li raccolgono: anche in quel caso (cambiando il mio atteggiamento verso i cinque sinti e sfruttando le loro abitudini) penso alla ristretta purezza della mia casa e non al danno che faccio all’ambiente buttando così i rifiuti (però solo qualche volta è capitato, la chiamo l’AMA la chiamo).
È chiaro che è un problema di quantità. Una costante attivazione del suddetto modulo porta alla sopravvalutazione della sacralità della terra (la mia terra!) all’invenzione della sacra tradizione. I moduli sono innati dunque funzionano o mal funzionano, e la cultura (il ragionamento, la logica, l’empirismo e la sensibilità) in effetti servirebbero a questo: a gettare ponti fra moduli.
Ma non è finita qua. Il fatto è che prima vengono le emozioni, poi il ragionamento. Spesso il ragionamento altro non è che un bias di conferma, un modo strategico per accogliere le tesi a sostegno e allontanare i dubbi. Haidt usa un’immagine: le emozioni sono come un elefante, il ragionamento è il portantino. Quando parliamo, parliamo all’elefante che si curva e spesso il portantino lo segue. Non capita spesso che grazie al ragionamento (alle verifiche sperimentali, alla metodologia scientifica ecc) accada il contrario.
E se così stanno le cose, arriviamo al punto. L’intellettuale (qui inteso in seso lato, quello che si applica nell’impresa conoscitiva), dovrebbe essere quello che riconosce l’intelligenza ma anche la pericolosità dell’elefante. L’intellettuale basico, di servizio, l’intellettuale portantino è colui che sa gettare ponti tra i diversi principi morali – fatto salve alcune questioni non contrattabili (non si possono inserire in un discorso le ragioni del torturatore o dello stupratore).
Se troppo spesso vincono gli elefanti – e i branchi e i sottobranchi – più facilmente si fondano club, gruppi ristretti. Il gruppo è tenuto insieme dalla morale (modulo di lealtà/tradimento), la morale crea vincoli di appartenenza ma acceca. In quel club così coeso, la ragione non serve a dialogare con gli altri club, ma serve solo ad aggiustare le scelte emotive del proprio club, creando buone giustificazioni, come farebbe un qualsiasi ufficio stampa e come fanno di continuo i politici. Siamo disposti a giustificare anche le fumonisine per proteggere la purezza del nostro club puro contro impuro – ma chissà poi se davvero la nostra specie cerca la verità? Spesso la verità è tragica, può capitare che la cerchi, la trovi e scopri che non hai le spalle sufficientemente forti per sostenerla. Per questo, forse cerchiamo solo una buona reputazione che fa pure rima con giustificazione.
Quindi? Non se ne esce? O fumonisine o oasi? Uomo o civiltà, scienza contro mistero? Ogm o bio (che poi sono veramente la stessa cosa, mannaggia). Haidt insiste su un punto: nei diversi gruppi, ci sono brave persone con le quali vale la pena parlare (non c’entra Renzi, perché dopo la furbata ecc. ecc.) ed elabora tutta una serie di strategie, alcune molto interessanti.
Comunque, se dobbiamo gettare ponti è necessario – qualora volessimo raggiungere e perché no, contestare l’altro – descrivere le sue potenziali ragioni (o il suo modulo) con attenzione, precisione e onestà, senza scorciatoie o caricature grottesche. La cultura dunque è tutta una questione di metodo e di stile; e che disgrazia le questioni di stile, per non parlare del metodo d’analisi.
Infine, per ringraziarvi della pazienza un segno di pace tra i vari moduli: olivi millenari del Salento.
PS: Poi devo risolvere la questione della potatura alla maniera francese, quella che non lasciava ombre e che ha provocato il colpo di sole a Rousseau. Chi lo sa perché potavano così. Magari chiamo il mio collega.