Romantici e illuministi
All’inizio del film, in un soffuso antefatto, Monty Brogan, di professione spacciatore, raccoglie per strada un cane (che diventerà il suo cane) bastonato e sanguinante. Alla fine del film, in macchina nel viaggio verso la prigione, Monty avrà lo stesso aspetto del cane, anche lui mogio, bastonato e gonfio – Monty ha chiesto al suo amico Frank (un agente di borsa) di picchiarlo per non arrivare sulla soglia della prigione con il viso pulito, da borghese, perché, in quel caso, i carcerati gli avrebbero spaccato la faccia. Meglio, quindi, prevenire il pestaggio, con un rudimentale e rude ma struggente (nella scena) fai da te.
Nell’appartamento di Monty sono stati trovati soldi e un chilo di eroina. Gli spettano sette anni di carcere. Il film racconta le ultime 24 ore di libertà, e il tentativo da parte di Monty di capire chi l’ha venduto alla polizia. A metà film va a salutare suo padre, ex pompiere in pensione che ora gestisce un bar. Monty è indispettito, frustrato e indignato con il mondo che l’ha incastrato, si alza, va in bagno e comincia il famoso monologo allo specchio.
Se scomponete il monologo è facile osservare due registri narrativi. Il primo, quello dirompente, rabbioso, e potente nella sua precisione sociologica, conserva una matrice melodrammatica e palesi tracce della retorica dei sentimenti: il mondo mi è nemico e mi costringe all’angolo, io reagisco maledicendo tutti e tutti con uguale intensità, i gay, gli italo americani, gli ebrei, i borghesi, Gesù Cristo e Bin Laden. Nessuno può sfuggire alla mia rabbia e poi, così facendo, recupero forza, dignità e mostro soprattutto coraggio. Chi mai può contestare quello che dico? Chi mai può dire che gli agenti di borsa non sono il male? Che gli ebrei ortodossi non vendano diamanti sporchi di sangue degli schiavi? Che Dio è morto? Che Bin Laden deve arrostire con le sue vergine all’inferno?
Il secondo registro, appena accennato, ma innovativo e capace di smontare tutto il suddetto: è quello della responsabilità individuale. No, un momento, è colpa mia. In questa brutta storia posso prendermela solo con me stesso: va fa n’culo a te, avevi tutto e hai buttato tutto: brutta testa di cazzo!
Il contrasto nel film produceva un eccellente stridore, anche perché si era poco dopo l’11 settembre (chissà se in quel momento la visione di Monty del mondo occidentale non fosse simile a quella dei terroristi).
Il filosofo Isaiah Berlin ha incessantemente ragionato su questi due registri. Il primo, quello melodrammatico, è di derivazione romantica, il secondo prende spunto dall’illuminismo. I romantici, nella loro rivoluzione iniziata in Germania alla fine del ‘700, misero in dubbio l’esistenza di una verità oggettiva esterna, vecchio caposaldo illuminista. Il grande errore dell’illuminismo in fondo fu proprio questo: derivare per analogia dalla matematica e dalla medicina (discipline allora fortemente in progress, basti pensare all’impatto che Newton ebbe sui filosofi illuministi) il concetto di regola universale. Come un’equazione matematica, la verità esiste oggettivamente, è solo sepolta sotto una coltre di ignoranza e superstizione religiosa. Se scaveremo, se ci libereremo dai rifiuti troveremo la strada giusta. Non si potrà sbagliare, quella sarà la via oggettiva, sia per me sia per uno che abita in nuova Caledonia. L’uomo ha dunque una sola responsabilità, un solo obiettivo, liberarsi dagli ingombri religiosi, dall’ignoranza diffusa e seguire la regola.
A questo si opposero i romantici. I valori non sono regolati e definiti una volta per tutte, è l’uomo, anzi l’artista che li crea. L’arte infatti non è imitazione della natura, tantomeno rappresentazione, ma espressione. L’uomo romantico lotta, incessantemente e contro tutti, per esprimere e affermare i propri valori. Sì, bene, ma dove sono questi valori? Alcuni dicevano nell’autenticità, nell’io più profondo, altri, per analogia, cominciarono a sostenere che il valore autentico, quello ultimo, dunque definitivo e puro e incorruttibile, non si trovava nell’ambito individuale ma in una sfera superiore, per esempio nella patria. Errori romantici. In fondo, anche loro hanno ragionato come gli illuministi, per analogia, per successivi slittamenti di senso: il valore è diventato oggetto puro, universale. La loro rivoluzione, come dice Berlin, ha prodotto sia artisti eccelsi sia spregevoli individui, come Hitler, appunto. E allora? Che si fa? Romantici o illuministi?
Sembra una questione irrisolvibile e lo è ancora di più se osserviamo con occhio un po’ distaccato l’Italia. L’istinto melodrammatico predomina ovunque. Nei commenti sui giornali (alcuni lettori del Fatto quotidiano sono esemplari in questo genere di attività), nelle dichiarazioni pubbliche e private, nelle elencazioni dei mali sembriamo tutti Monty. Ma Monty a metà, senza la responsabilità individuale. Preferiamo il primo registro, insomma: noi un dialogo così, alla maniera di Monty, lo avremmo scritto con maggiore difficoltà, impegnati come siamo a spingere sul registro romantico.
Amiamo esprimere la nostra indignazione contro il mondo o contro categorie, gruppi di potere vari, ma siamo ben lontani nel dichiarare la nostra appartenenza ai mali che con ansia romantica crediamo di stigmatizzare. Nelle forme più esagitate questa pratica raggiunge vette esemplari di complottismo. Il lettore, o chi per lui, denunciando il complotto denuncia in fondo solo la propria paranoia. Accusando gli altri di non vedere, di essere schiavi o come burattini mossi da fili tirati da corporation avide, arriva solo ad accusare la propria schiavitù e avidità. A volte leggendo commenti complottisti, lividi di rabbia e sprezzanti, ascoltando i va fa n’culo in piazza, o assistendo allo spettacolo retorico (non so dire se penoso o affascinante) di evidenti colpevoli capaci di difendersi dalle accuse sfoggiando colte giustificazioni, a volte, in questi momenti, potremmo incorrere in una sensazione eretica. Ci assale una consapevolezza: in questo clima rabbioso e ideologico, chi è contro i ladri è pronto esso stesso a rubare se messo nelle stesse identiche condizioni del ladro. Come se ci stessimo in realtà preparandoci non a migliorare il mondo, ma a praticare i suoi mali con disinvoltura e romantica espressività.
Ma allora di chi siamo figli noi? Romantici o illuministi? Berlin ha una sua opinione al riguardo: siamo figli di entrambe le rivoluzioni, quella illuminista e quella romantica, siamo il parto di un irrisolvibile contrasto tra le nostre ambizioni smisurate, i nostri desideri e le conseguenze, quelle si misurabili, che i suddetti elementi hanno sul mondo esterno. Non possiamo dichiarare che il mondo è orribile senza ritenerci responsabili (certo con diversi gradi di responsabilità) di queste dinamiche. Alla narrativa e alla cultura la capacità di vedere i fili che legano il singolo individuo al mondo, cattivo o buono che sia. In fondo questo rapporto è sempre biunivoco, ed è bene saperlo, e saper leggerlo e descriverlo in chiave evolutiva: noi cambiamo il mondo, il mondo cambia noi.
O forse più semplicemente e con meno rovelli potremmo accettare alcuni risultati delle neuroscienze, la filosofia scientifica del futuro prossimo venturo. Daniel Kahneman (premio Nobel per l’economia nel 2002) nel suo libro Pensieri lenti e veloci aggiunge alla vecchia questione filosofica un po’ di empirismo scientifico. Ragioniamo attraverso due sistemi: il sistema uno e il sistema due. Il primo ha origine nel paleolitico, nell’epoca in cui eravamo cacciatori raccoglitori. Dunque è veloce, economico (consuma poco glucosio), fortemente associativo, ci fa riconoscere la paura nel volto di un altro in pochi millesimi di secondo e ama arrivare subito alla conclusione. Si capisce, eravamo nella savana, se vedevamo delle macchie gialle in mezzo alla radura non potevamo dire: andiamo a vedere di che si tratta. Chi prima arrivava alla conclusione: se uniamo le macchie gialle otteniamo una tigre dai denti a sciabola, quello è il primo che si salvava.
Il secondo sistema invece è lento, analitico, razionale, molto pigro (consuma tanto glucosio). È un sistema nato per misurare, per fare differenze e, si sa, dalla differenze nascono i valori e dai valori scelte. Per quanto possiamo dirci razionali, il sistema uno funziona tanto, troppo, e così molte delle nostre scelte, anche quelle importanti (politiche, economiche, sentimentali), avvengono grazie al sistema uno. Dalla sua c’è che funziona, soprattutto in assenza di tempo, allora le scelte semplificate (euristiche) sono ideali.
Usiamo spesso il sistema uno, eppure è un sistema pieno di bias cognitivi, di errori di valutazione. Gli esperimenti dimostrano che peso hanno gli errori nella nostra vita, e sono errori tipici del sistema uno. Tuttavia non è questo il guaio, il guaio è che il sistema due, spesso, non contraddice il sistema uno, non entra in gioco, anzi interviene in un secondo momento, a scelta fatta, per giustificare l’accaduto, e si formano così, romantiche storie, piene di giustificazioni o accuse all’altro da noi.
I nostri monologhi, pur belli e vitali, pur necessari (volete toglierci il piacere di lamentarci) spesso nascano dal sistema uno, vanno avanti per analogie e associazioni, ci costano poco ed evitiamo aspri e perniciosi confronti con la misura. La verità, l’unica che possiamo definire “oggettiva”, è che non siamo così liberi come crediamo. Troppo pigri e troppo appesantiti da bias cognitivi di vecchia data. Dovremmo usare di più meglio il sistema due, in fondo è questione di esercizio. La buona cultura, in senso lato, è una sorta di dialogo alla 25 esima ora tra i due sistemi, tra ipotesi e prove, tra le nostre dichiarazioni di fede, le preghiere, le invocazioni, gli smadonnamenti e le conseguenze di questo bailamme sul mondo. La verità, volgarmente detta, è un misto tra va fa n’culo e va fa n’culo a me, cioè, un metodo di misura, che necessità di continui apporti conoscitivi.
Alla nostra capacità di inventare nuovi strumenti e di tararli di volta in volta, saranno affidate le 25 esime ore che verranno.