Troisi e la solitudine dell’Italia
Tra i fans di Massimo Troisi c’era, e credo ci sia ancora, una discussione non accesa ma aperta: se sia più bello il primo film, Ricomincio da tre, o il secondo, Scusate il ritardo. È un po’ come la preferenza tra mamma e papà: io, per esempio, sono più affezionato a Scusate il ritardo. Preferenza a parte, i film di Troisi – ma tutto il lavoro fatto anni prima con la Smorfia – tra le tante novità, portavano sulla scena due elementi non usuali: l’affanno e la balbuzie. Sono due caratteristiche della cultura popolare. Allora, questi due elementi avevano forza e risultavano originali soprattutto perché si concentravano su un luogo simbolo, Napoli e i napoletani, appunto.
Spesso la descrizione di questo luogo e dei suoi personaggi provocavano in alcuni di noi, napoletani e non, solo noia e rabbia. Proprio perché erano tanti i bias cognitivi ed era, inoltre, imbarazzante lo spregiudicato uso di cliché. Pier Paolo Pasolini, il nostro grande antropologo, poeta e indignato osservatore delle dinamiche della modernità, nel suo saggio Gennariello – un saggio poco citato ma nel quale sono visibili molte tracce del suo pensiero (brillante e reazionario) – dice che i napoletani gli stanno parecchio simpatici, perché appartengono a un’antica tribù passata attraverso la modernità senza farsi corrompere. Quindi tutto ciò che avveniva a Napoli era frutto di uno scambio di antichissimo sapere. Anche se ti rubano il portafoglio, diceva Pasolini, anche quel gesto era frutto di uno scambio di antichissimo sapere. Detta in parole povere, se il portafoglio ce lo rubano a Roma, passiamo una cattiva giornata – per non parlare di tutte le conseguenze pratiche, blocca le carte di credito, fai la denuncia, e cose così – ma se invece ce lo rubano a Napoli, beh, allora, meno male, perché siamo stati oggetti di uno scambio di antichissimo sapere.
Siccome molti di noi napoletani avevano parenti che affondavano radici nell’Ottocento, eravamo certi che l’antica tribù fosse una fantasia di letterati con forte spinta ideologica, più che empirica e conoscitiva. Insomma, i tuareg non li avevamo mai visti, ed eravamo certi, poi, che l’immaginario napoletano fosse frutto di un sentimento nostalgico, una grande recita collettiva durante la quale tendevamo a non scontentare il nostro interlocutore, il quale voleva essere sì ingannato ma con sentimento – «a Napoli ti rubano le valige, ma lo fanno con il cuore» disse una volta Paolo Poli, rientrando così a tutti gli effetti nella premiata associazione “viva i furti tipici”, come quelli di una volta, al tempo dei tuareg.
Dunque, quando arriva Massimo Troisi con la sua balbuzie e i suoi affanni (sentimentali e culturali) lo scenario fortunatamente muta. Cambia proprio la modalità d’espressione. Il pensiero non è più sottomesso alla forza di un immaginario già scritto ma tenta di liberarsi dalle catene della tipicità. E naturalmente per lo sforzo spreca energie, va fuori strada, si inceppa, riparte con brio per poi interrompersi. Insomma, la battuta finale è il risultato non di una simpatia innata e vocazioni millenarie ma di una ricerca, costante e inquieta. Troisi ci mostra cioè, con sprezzo del pericolo, le modalità del pensiero in formazione, si arrovella, sembra cedere e poi giunge al traguardo, ma è solo un attimo di luce prima che il gorgo lo ritrascini nell’abisso.
Era un sentimento che negli anni Ottanta (che furono anche anni di apertura, globali, alla Mister Fantasy) sentivamo vicino. Per arrivare al traguardo, non basta la battuta esemplare e precisa, quella è segno di perfetta adesione al modello dominante. Sul filo di lana, dobbiamo portare e soprattutto mostrare anche i pesi, e quindi gli intralci e le buche, i passi falsi, quelli naturali e specifici, perché, poi, la balbuzie e gli affanni sono l’unico modo (il metodo di ricerca) che abbiamo per rileggere un modello che non ci piace.
La scena della macchinetta del caffè mi torna in mente nei momenti di scoramento, quando mi sento parte dell’insieme Italia. Il paese allora m’appare proprio come il vecchio professore di Troisi, una brava persona, ma molto legata al suo appartamento, alle sue cose, private e piccole. Se si apre è solo per sfruttare il vantaggio contingente e materiale che questa apertura gli dona – nella fattispecie la mamma di Vincenzo lava i panni sporchi del professore e gli prepara da mangiare. Per il resto, la porta di casa è chiusa, anche se Vincenzo ha le chiavi dell’appartamento e sfrutta l’assenza dell’inquilino per portarci Anna. Nulla può essere toccato in quella casa, nemmeno la lampada da due lire: «si rompe!», dice il professore a Vincenzo, che per noia la piega.
Il professore rappresentava, allora, una vecchia idea di Napoli, una città culturalmente incapace di cambiare. Ma se il professore era Napoli, l’Italia era come il professore? Siamo così? mi chiedo – ma sono momenti di sconforto. Un paese che vive in brillante e reazionaria solitudine e non compra la macchinetta da 12, perché non crede giusto investire nel futuro? non si prende dei rischi, non accetta balbuzie e affanni, elementi utili per liberarsi dalle catene del passato? Anzi al contrario, appare teso a difendere pezzi di territorio: quelli, si sa, sono dotati di antichissimo valore e vocazioni millenarie. Un paese tipico e piccolo, come il professore?
Ci sono dati economici e di costume che purtroppo confermano queste sensazioni. A sinistra il lavoro culturale di questi anni è consistito nel puntare sul piccolo, sul tipico, sul naturale, sul prodotto di casa nostra, terra nostra, tradizioni nostre. Bisognava salvare i mores locali dall’assalto del mondo moderno ecc ecc. A destra, dalle parti del movimento leghista, il concetto è identico: solo un po’ più greve e sporco. Lavoro e prodotti di casa nostra, compra italiano, recitano alcuni manifesti autarchici di Forza Nuova. Sono in tanti a dirlo. Ho sentito, per esempio, che anche i batteri e i lieviti che si usano per i processi fermentativi devono essere di casa nostra. Il Parmigiano Reggiano è autoctono, si sottolinea nella relazione introduttiva del Cheese di Bra. La tecnologia di trasformazione del latte, realizzata in caseificio, vuole esaltare l’attività e la fermentazione dei batteri nati nel territorio. Non vogliamo batteri d’importazione.
Batteri di importazione. Fantastico. Adesso chi glielo spiega al professore che le dimensioni dei batteri sono molto ridotte e il loro universo è di pochi micron, pochi micron non fanno un territorio. Metti poi che quel territorio non è omogeneo, per temperature, piovosità, suolo, bastano pochi millimetri di pioggia in più e si instaura una pressione selettiva. I batteri mica conoscono la geografia, che ne sanno se si trovano a Mantova o sul Reno? Stessa cosa per il vino, anche lì vanno di moda i lieviti di casa nostra. Ma per quale ragione i lieviti del posto dovrebbero essere migliori per fare il Chianti? Quasi come se si fossero selezionati da soli per fare un buon Chianti, perché dotati di ragione e non sotto la spinta di una pressione selettiva.
Capite bene che Troisi con tutto l’affanno e la balbuzie popolare, ci invitava a ragionare su due novità apparse nella modernità. Primo: è un guaio se il professore non investe nel futuro, dunque non compra la nuova macchinetta da caffè per 12, cioè non spera (anzi non vuole) che qualcuno dica: andiamo a prenderci un caffè a casa del professore. È un guaio se tende ad approfittare di un vantaggio contingente, se gli basta una piccola nicchia di mercato e non ritiene giusto, invece, gettare un ponte tra varie isole.
Anche perché, in chiosa, e giusto per intasare il post con i soliti dati, facciamoci una domanda: qual è il rapporto economico dei prodotti tipici col resto dell’agricoltura italiana? (dati professor Casati università di Milano) Sul fatturato alimentare il 4 per cento (circa 5 miliardi di euro). Sull’export alimentare il 6 per cento (circa un miliardo di euro). Sul valore dei comparti: formaggi 55 per cento, salumi 35 per cento, ortofrutticoli 6 per cento. Sull’export dei comparti: formaggi 58 per cento, salumi 30 per cento, ortofrutticoli 9 per cento, oli 3 per cento. Dunque, è un buon affare, sì, ma per pochi – altra caratteristica italiana – perché 5 denominazioni (Parmigiano, Grana, i due prosciutti e mozzarella di bufala) rappresentano il 70 per cento circa del valore del tipico alla produzione, al consumo e all’esportazione. In realtà, chi è fermo ai prodotti tipici, lo è perché gode di un vantaggio contingente, come il professore che si fa lavare i panni.
Seconda questione della modernità: nemmeno la macchinetta per il caffè, cioè lo strumento di produzione, è di casa nostra. I prodotti nascono da una collaborazione internazionale. Che ci piaccia o no. L’importante è saperlo, ci vogliono nuove regole, è certo, ma tant’è, meglio conoscere la fisiologia della filiera perché spesso è la nostra ignoranza della fisiologia a produrre il danno. Metti la pizza. È in corso di registrazione la dizione: specialità tradizionale garantita (pizza napoletana STG). Questa etichettatura avrà un vantaggio economico? Davvero il prodotto certificato è realizzato con materia locale? Ma veramente? Per ottenere la pizza napoletana (che sia STG o meno) di così eccellenti qualità, è necessario impiegare la farina Manitoba, ottenuta da grani selezionati dall’antica cultivar canadese Manitoba. Ciò significa che per ogni pizza paghiamo le royalties ai selezionatori di quel grano. Il pomodoro Pachino? Stessa cosa, le tre varietà di ciliegino più in uso, Piccadilly, Shiren e Titì, sono selezionate dalla ditta Israeliana Hazera. Sono buoni perché gli israeliani investono nella moka da 12, cioè fanno un’ottima ricerca e poi ci vendono semi, mica solo a noi, a tutto il mondo. Un kg di seme costa 15.000 euro e contiene dai 450.000 ai 500.000 mila semi. Tenuto conto del sesto di impianto, con un chilo di seme coltivi dieci ettari. Una pianta in serra fredda produce da agosto a gennaio quattro chili di pomodoro.
Capite bene l’antifona: chi innova guadagna, chi è fermo perde. Al massimo possiamo fare belle brochure illustrative, quindi destinare gran parte delle risorse economiche non alla ricerca e al miglioramento qualitativo dei medesimi prodotti, ma per dire. Apparteniamo a un’antica tribù di professori tipici, pratichiamo lo scambio di sapere, rimaniamo così, vuoi mettere il vantaggio? Qui anche i batteri sono di casa nostra.