The Elephant Man ed Eluana Englaro
È un vero manifesto poetico, The Elephant Man di David Lynch (1980). Per la prima volta, sullo schermo, veniva raccontata la storia di un uomo malato di neurofibrosi cistica (una malattia che deforma il cranio) che prova orrore e spavento ogni volta che subisce lo sguardo, inorridito e spaventato, degli altri. Le figure mitologiche (così fantasmagoriche) del mostro, del deforme, del malato ora, grazie a Lynch, venivano capovolte e cambiate di segno. Più di Hugo e del suo Quasimodo, Lynch raccontava della paura che il malato ha di far paura. «Noooo, non sono un animale, sono un essere umano… sono un uomo» è il grido che John Merrick libera (liberandosi) quando viene circondato dalla folla pronta a linciarlo. Sono un essere umano, grida (e la folla si allontana). Ovvero: sono i vostri sguardi – nel film ce n’erano parecchi, quelli crudeli, quelli medici, quelli compassionevoli, quelli ricattatori e quelli sinceri – che mi rendono mostruoso, quindi senza speranza di cambiamento.
The Elephant Man è un manifesto poetico e filosofico da sottoscrivere: non si può rappresentare il dolore degli altri se prima non si ha la compiacenza di misurare e delimitare, quindi, definire il proprio (sguardo di) dolore. Sono gli ultimi 11 minuti del film. John Merrick, dopo varie peripezie da mostro, assiste a una rappresentazione teatrale, organizzata a sorpresa dalla signora Kendal, un’attrice. Non è la sola che si sia avvicinata a lui, ma è l’unica che l’ha fatto attraverso il teatro – l’arte, si sa, purifica, così John Merrick perde il corpo deforme e mostra il suo cuore sensibile. Per la prima volta riceve un applauso, e non subisce sguardi cattivi, o compassionevoli, né invasivi. Questa volta sente la sincerità di quegli sguardi, le persone applaudono la sua sensibilità verso il teatro.
Perché dunque Merrick decide di suicidarsi, dormendo supino (la deformità del suo cranio non gli consente la posizione fetale)? Perché sceglie di morire, proprio nel momento in cui sembra sia stato ben accettato dagli altri? È vero, Merrick in realtà è già malato e non ha possibilità di guarigione. Però accelera, e consapevolmente. Il suo suicidio è proprio il tentativo di preservare all’infinito il gesto di magnanimità altrui. La bontà, lo sguardo degli altri sul mostro, il nostro sguardo, infatti, non potrà essere mantenuto per sempre sullo stesso tono: le corde della sensibilità e della purezza non vibreranno più come questa sera. L’uomo elefante teme proprio che l’indomani possa ridiventare fenomeno da baraccone, creatura deforme soggetta continuamente al nostro ribrezzo o al suo opposto, la pietà. Fermiamoci qui, nel momento più alto, ora che il modellino della cattedrale è finito, non voglio rischiare di essere di nuovo invaso dai vostri sguardi peggiori.
The Elephant Man è film utile per avvicinarci al concetto di autodeterminazione. In situazioni particolari di disagio cronico e irreversibile, il malato è continuamente soggetto all’invadenza del nostro sguardo. C’è di più: la nostra percezione del corpo del malato (mostruoso) può mutare nel tempo, passando dallo «sguardo» medico, dunque curativo, allo sguardo morboso, pietoso, fino a quello di disprezzo, una mortificazione per il corpo e la mente. In tutti questi casi è significativo il cambio di punto di vista: io malato, condannato irreversibilmente a morire da qui a poco, decido di porre termine alla mia vita per fermare il vostro sguardo nel suo punto più alto e nobile, poco prima, cioè, che la vostra generosità si trasformi e diventi sentimento mostruoso e invadente.
L’autodeterminazione, dunque, raffina gli sguardi, li separa. Sono io (il mostruosamente malato) quello capace di accettare o rifiutare il vostro amore. Non siete voi sani a donarmi amore, ma sono io, il mostro, che vi insegno dove fermare i vostri sguardi d’amore (presunti e mutevoli). Anche perché l’amore non rende la vita migliore, al limite, e con molta fatica, la rende possibile. E poi l’amore in molti casi, senza separazione e autodeterminazione, è uno strumento egotico, utile solo a invadere l’altro: il problema del prossimo è sempre la sua eccessiva prossimità. E soprattutto la sofferenza del malato a essere mostruoso, se irreversibile e prolungata, non amplia la nostra sensibilità né il nostro amore per la vita, tantomeno rende nobili i nostri sguardi. La sofferenza può aver senso solo se si fa qualcosa, di giusto e necessario, per superarla.
Forse l’incapacità di misurare e delimitare i confini dei nostri sguardi, ha fatto sì che nel febbraio del 2009 una moltitudine di persone invadesse il corpo di una ragazza in irreversibile stato di coma vegetativo. E si ascoltassero, oltre a Celentano e altri maitre à penser, commenti come quello di Paolo Sorbi, presidente del Movimento per la vita (ex Lotta Continua, formatosi a all’università di sociologia a Trento). Dai microfoni di Radio Maria (la radio più ascoltata in Italia), rivolgendosi con il “tu” e con un cadenza napoletana a Beppino Englaro, rilasciava dichiarazioni di questo tipo:
«Peppì ma quante volte fai ‘sti ricorsi, ma non ti scocci di andare in tribunali, so’ personaggi spaventosi: i magistrati, avvocati… Peppì, si lavora poco nei tribunali, non ti mettere in mano all’ingiustizia… hai scocciato il mondo con questi ricorsi… non si può interrompere l’alimentazione a una povera ragazza… se l’embrione è una persona umana e Eluana come te siete due postembrioni ma perché devi uccidere Eluana… ma… te la tengono le suore, te la tenniamm’ noi, non la vuoi vedere più? e non la vedere più… vuoi avere un biglietto gratis per farti un dio di viaggio, a livello mondiale, 500 paesi? te lo diamo, ti paghiamo un biglietto gratis, vavattenn’, ti vuoi rendere conto che sei un caso umano?… don Peppì non metterti paura subito con la mano sul portafoglio… Peppì non mi ‘a tucca a ‘Eluana… vatt’ a fare nu’ dio ‘e viaggio, lasciaci soffrire con Eluana, non è male la sofferenza, la sofferenza re-di-me che lo vuoi o non lo vuoi… La sofferenza è la grande strada, non è obbligatorio stare nella grande strada, si può stare anche nei viottoli e pure io sono un amico dei viottoli, così ci conosciamo, ci andiamo a fare una piazza quando ci incontriamo…»
Non era una voce isolata, quella di Paolo Sorbi. Esprimeva in maniera violenta (e forse più onesta) un pensiero più vasto che in quel periodo ha aggredito, credo purtroppo, e spero non irreversibilmente, anche territori laici, quelli che credevamo capaci di analisi e separazioni, caso per caso, dignità per dignità. In fondo, come Sorbi, in tanti desideravano soffrire, ma a patto che di questa sofferenza fossero solo spettatori. Molti, spaventati, equivocavano, di sicuro per un eccesso di vanità, il singolo caso Englaro. Pensavano di dovere morire al posto di Eluana, scambiavano il proprio stato di salute con quello di una ragazza in coma vegetativo da 17 anni. E se toccasse a me, si chiedevano, in fondo, nei loro discorsi? Anche questo era il senso tangibile di una smisurata invasione.
In un contesto sociale confuso è utile ricorrere a fonti specifiche o, come nel caso Englaro, giuridiche, perché queste si fondano su un pensiero filosofico e su una riflessione di ampio respiro che, invece di generalizzare, riescono a rendere unici e particolari alcuni casi. Il decreto del 9 luglio 2008 del Tribunale Civile di Milano:
«un giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (1) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base a un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pur flebile, recupero della coscienza e di ritorno alla percezione di un mondo esterno e (2) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base a elementi di prova certi, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dei suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ed, ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora dare incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri, possano avere, della vita stessa».
Il cuore del decreto quindi è rappresentato dalla ricostruzione della personalità di Eluana e delle opinioni manifestate dalla ragazza rispetto alla sua preferenza di morire piuttosto che vivere in condizioni compromesse. Rispettare le volontà di Eluana non implica universalizzare quelle volontà. A ciascuno il suo sguardo. A ciascuno la volontà di accogliere o rifiutare lo sguardo altrui che si posa, con vari gradi, dalla grazia alla pesantezza, su di noi.
Anche questo testo, a suo modo, è un manifesto poetico da sottoscrivere.