La prova del nove
È la scena che meglio descrive il tema del film Il Cacciatore (Michael Cimino, 1978): uccidere o morire, montagna o in Vietnam non fa differenza, ma deve succedere lealmente. Con un colpo solo. Appunto. Tre ragazzi (di origine russa), Michael (de Niro), Nick (Walken) e Steve (Savage) operai in acciaieria, vanno in guerra. Prima, da civili, sono cazzari, più o meno simpatici, ridono in maniera grassa, spesso insensata ed esasperante, si fanno scherzi stupidi, giocano con il tempo e la vita senza pensarci troppo, e come hobby prediletto cacciano il cervo sulle montagne. In larga parte hanno difficoltà a esprimere i propri sentimenti, se lo fanno li raccontano con una sorta di affanno e di imprecisione, insomma, di titubanza soffusa, e però, così poeticamente resa da Cimino – è difficile dire una frase come: tu hai qualcosa dentro (tipicamente e inutilmente usata da tutti) e sentirsi toccati dentro proprio per via dell’affermazione suddetta.
Michael qui discute della sua teoria: one shot. La regola del colpo solo non deve essere riservata soltanto al cervo, ma per estensione, si capisce, è riservata agli altri: si va in guerra, bene, ma con delle regole leali, perché noi (gli americani, gli occidentali) siamo democratici e per questa pratica lottiamo, anche e soprattutto in guerra. Perché, sosteniamo, uccidere o morire in Vietnam o in montagna non fa nessuna differenza. Questa è la tesi da primo atto. Ora, la drammaturgia quando funziona applica una sorta di prova del nove alla tesi iniziale, per vedere se il risultato della moltiplicazione è corretto. Il bello è che la drammaturgia funziona bene, anzi, funziona solo se la prova del nove è imprecisa, ovvero se la prova del nove fallisce (se non sbaglio è una possibilità che può verificarsi, in alcuni casi, anche in matematica, per la prova del nove. Ma sono stato rimandato tre volte in matematica allo scientifico e ad Agraria ho preso 18 all’esame di matematica generale, quindi…).
Nel film Michael, Nick e Steve dovranno, guarda caso, giocare con un colpo solo: la roulette russa, nelle famose e strazianti scene. Ovvero, prima cacciavano il cervo, sì armati, ma tuttavia difesi (e insensibili) dalla regola del colpo solo, ora sono loro stessi a essere dalla parte del cervo, indifesi e sguarniti, e devono fare i conti la tesi iniziale, le loro stesse parole: la lealtà del colpo solo. Basta poco, cioè cambiare prospettiva e punto di vista, e la regola democratica – quella necessaria a garantire pace e prosperità – diventa brutalità cruenta, pratica mortificante per la vita che dovrà ancora venire. Michael e Nick – seduti al tavolo, da cacciatori a cervi – dovranno venire meno alla loro regola, giocare non con una ma con tre pallottole, sperare di non uccidersi e utilizzare i tre colpi per sparare ai vietcong intorno al tavolo. Il colpo solo viene a cadere come principio. L’esperienza cambierà la prospettiva.
Al ritorno, tutta la comunità sarà ferita, Michael dovrà occuparsi di recuperare gli altri, soprattutto Nick, bloccato da una coazione a ripetere nella pratica del colpo solo: ha perso la memoria e gioca per soldi alla roulette russa. Cosa cambia allora, avendo infranto (perché costretti a farlo) la regola? Michael non spara più al cervo. Diciamo la verità, quando sei stato costretto a essere cervo non vuoi o non puoi più sparare ai cervi. Michael accetta l’improvvisa rivelazione con un semplice: ok. Però gridato dai bordi di una cascata, affinché l’eco superi il rumore di fondo della natura, o perché l’ok si confonda con il sibilo della natura, come a dire: a volte fa parte della nostra natura essere altruisti, collaborativi, pacifici, insomma. Basta sapere ascoltare gli echi.
( La straordinaria storia di Michael Cimino)
La prova del nove corrisponde al secondo atto narrativo. Secondo David Mamet l’atto più difficile (nelle sue lezioni di drammaturgia, I tre usi del coltello, minimum fax) comincia quando quello che voleva bonificare la palude, s’accorge che è immerso fino al collo nel fango e cambia idea. Ora vuole ritirarsi. Quindi nel percorso di ritorno rivede i suoi passi, fa la prova del nove appunto, e poi torna, rinfrancato e con più forza a risolvere il conflitto. Il terzo atto (preceduto da un buon e serio secondo atto) garantisce la risoluzione del conflitto e l’apertura di una nuova strada, oppure la mortificazione della tesi iniziale ma l’acquisizione di una percezione diversa.
La qualità del secondo atto dipende dalla capacità di introspezione e immaginazione, dalla sensibilità che mostriamo nel definire noi stessi in rapporto con l’ambiente: si tratta di un rapporto biunivoco, noi cambiamo il mondo e il mondo cambia noi. Un buon secondo atto dovrebbe, quindi, escludere quegli elementi di melodramma coatto e sciatto (“il mondo mi è nemico, e io solo possiedo la verità”) e anche le pratiche ricattatorie e di ovvia consultazione, come invocare parole magiche o preferire le soluzioni religiose, così come accade spesso nelle epoche agitate.
Sarei molto contento, tuttavia, se qualcuno più serio e con dati analitici alla mano, dimostrasse che un paese senza una buona drammaturgia è una paese con un deficit democratico. Se qualcuno dimostrasse che in Italia, per esempio, il primo atto è portentoso (dichiarazioni ad libitum), il terzo atto arriva sempre, ma ci viene a mancare proprio la capacità di mettere alla prova le nostre parole. Non apriamo le porte a nuove e più utili percezioni, come se fossimo tragicamente bloccati al tavolo della roulette, ma così per gioco e senza conseguenze, almeno in apparenza.