C’è chi dice no
Al bar, la mattina presto. Guardavo Maria mentre mi preparava il caffè. Ha la pelle bianca, niente trucco. Jeans – è sempre in jeans – e felpa. Parla un buon romanesco. Io guardavo Maria ma lei non mi guardava affatto. Che io sappia non guarda nessuno, eppure la guardano tutti. Saluta tutti, scherza con tutti, ma non guarda chi la saluta. È ucraina, ha una figlia, e, da qualche parte, un marito, credo.
La mattina viene da lontanissimo, Borghesiana-Monteverde. Si sveglia prima di me, che pure in questo campo non sono male. Vabbè. Ero già contrariato sia perché Maria non mi guardava (a che vale giustificarsi dicendo: non guarda nessuno? Allora, sono nessuno anche io?), sia perché avevo letto un articolo su Repubblica: brevetti, patate e broccoli come auto di lusso. Le mani delle multinazionali sui prodotti agricoli. A firma di Andrea Tarquini. Articolo leggermente impreciso (www.lavalledelsiele.com per dettagliate spiegazioni).Pensavo ma come è possibile che abbiamo questo vizio, e cioè, ogni volta che dobbiamo fare le differenze semplifichiamo tutto? Per esempio, come ci consola e ci piace la parola multinazionale. Bello metterla nei titoli di testa. Prendiamo l’applauso. Un po’ come in sogni d’oro, quando il regista Michele Apicella, si difende dall’accusa di fare film per un’élite (la casalinga di Treviso, il pastore sardo, un povero bracciante lucano, cosa capiranno?). Finché in un dibattito, di fronte alla solita accusa, dice: no, i proletari mi riconoscono, scopre un velo e sotto c’è un cameriere che dice: effettivamente, è da molti anni che io lavoro… e scatta la standing ovation.
Sono solo cambiate le parole, multinazionale… applauso.
Alfonso Berardinelli una volta, a proposito di un critico, mi ha detto: quello, la prima cosa che dice è geniale, la seconda normale, la terza è una cazzata. Che però, a pensarci, già di per sé, è un modo di conoscere, basta fermarsi alla prima. Invece ce n’è un altro: la prima cosa che si dice è una cazzata, la seconda normale, la terza, finalmente, più precisa.
Il fatto è che, soprattutto quando scriviamo sui giornali, funzioniamo secondo quest’ultima dinamica conoscitiva, e purtroppo ci fermiamo alla prima affermazione. Bisognerebbe proseguire, con curiosità mettere in discussione il valore della prima affermazione. Ragione per cui, i giornali dovrebbero avere un inserto: integrazioni e correzioni. A fine settimana si rivedono le prime cazzate che si sono dette e piano piano, con pazienza, integrando e correggendo, esaminando meglio le fonti, si giunge a una conclusione più precisa.
Vabbè, questo per dirvi che stavo così: contrariato (e dire che l’insonnia si è attenuata). Sono uscito dal bar rimurginando, su Maria (ma una cameriera ucraina, sarà interessata a tutto questo? Sarà per questo che non mi guarda?) e sull’articolo. Faccio tre metri e una signora con due setter al guinzaglio mi punta, lei, non i setter. Mi dice: Pascale? Dica! Ho detto io (mica capita tutti i giorni, essere puntato). Divertenti i suoi pezzi, però…, mi ha detto (come odio i però)… però, suvvia, i problemi delle donne non sono mica solo quelli, qua ci stanno togliendo tutti i diritti, altro che, il consultorio dove lavoro sta chiudendo, lo sa lei? I cani, però, (uhmm) tiravano verso la villa e la signora mi ha salutato: passato il mal di testa….?
Sì, il mal di testa, quello era passato. Ma ora eccomi qua. A pensare: Maria non mi guarda, l’articolo di Repubblica è un po’ impreciso e io passo parte del mio tempo a ragionare sulle donne, e una donna, però, mi dice, appunto: però, non sono questi i problemi di cui soffriamo noi, oggi.
Ma non è che sto facendo gli articoli con la parola multinazionale inserita? A mio modo, dico.
Il fatto è che la modernità stancante, i ruoli acquisiti vengono ribaltati, l’identità subisce processi continui di disfacimento e rifacimento. Non fai in tempo a stargli dietro. Narrativamente parlando è un’iattura. Lo stile, quello, dovrebbe essere mosso, dinamico, aperto, allucinato e magari strada facendo, ragionamento dopo ragionamento, integrazione dopo correzione, si potrebbe giungere a una misura più precisa. Un momentaneo senso di sollievo per la fatica appena fatta. Uffff.
Nei giorni successivi, dopo vari sbuffamenti perché, appunto, la modernità è allucinata (siamo sempre dalle parti di Emilia paranoica, in fondo) e vari tentativi di elaborare una riflessione diversa, così, giusto per prendere sul serio la signora con i due setter – un bel viso, a ripensarci – insomma, dopo aver sentito una decina di volte, ossessivamente, per meglio capire le donne, alcune canzoni, tra cui a) Testarda io, magnificamente cantata da Iva Zanicchi: la mia solitudine sei tu, la mia rabbia vera sempre tu, ora non mi chiedere perché, a testa bassa vado via, per ripicca senza te (peccato per quei coretti anni ’70, e comunque, Visconti la usò in Gruppo di famiglia in un interno), e b) cinque volte Venus in furs, di Lou Reed (versione live, chitarra acustica, elettrica e contrabbasso, dall’albun Animal serenade, volume uno), insomma: mi arriva una mail di Chiara Lalli.
Chiara Lalli mi allega il suo libro, C’è chi dice no. Si tratta di un’indagine, reportagistica, filosofica e scientifica, sul tema dell’obiezione di coscienza, e sulle sue declinazioni (Luca Sofri, tempo addietro, qui). Il servizio civile, l’interruzione volontaria della gravidanza, la legge 40, la sperimentazione animale, il disegno di legge sui farmacisti e la pillola del giorno dopo ecc. Detta in breve, a lettura ultimata, si può azzardare: è un libro dove si racconta come vengono sabotati alcuni diritti delle donne. Ancora azzardando: come alcuni maschi, ma non solo, specificatamente e filosoficamente antimoderni, tentano di ristabilire i vecchi e univoci ruoli “nel 1958 Oscar Luigi Scalfaro aveva dichiarato. ‘’La propaganda e l’istigazione all’uso di antifecondativi, anche se fatta privatamente è un atto illecito da punto di vista del diritto naturale.’’ Fino al 1971 in base all’articolo 553 del codice penale vendere contraccettivi era illegale, poi l’articolo venne abolito da una sentenza della Corte Costituzionale. Ma rimaneva in piedi l’articolo 553, che riguardava il divieto di propaganda, e il divieto di registrare medicinali con indicazioni contraccettive da parte del Ministero della Sanità”.
Naturalmente questo libro è anche un reportage. Chiara Lalli entra negli ospedali, racconta storie, di quelle che hanno subìto, con danni, la facile obiezione di medici antiabortisti, o quelle donne, spesso immigrate, che si aggirano nei pressi della Stazione Centrale di Milano, toccandosi la pancia finché qualcuno non le avvicina e vende loro un farmaco per la gastrite che ha come effetto collaterale quello di indurre contrazioni uterine. Insomma, provoca aborti. E infine, Chiara Lalli entra, ed è la parte più bella, nel cuore di quelle proposte di legge che mirato a limitare alcuni diritti. E qui si scopre una cosa.
Si scopre, cioè – leggendo i capitoli che riguardano l‘aborto, la pillola del giorno dopo e la legge 40 – una tendenza organica e diffusa, voglio dire, un tipico modo di ragionare di questo paese. Non riusciamo più a fare delle differenze. Questa operazione, indispensabile per una sana e civile convivenza, ci deve essere evidentemente venuta a noia. Siccome non sappiamo niente, siamo inesperti totali ma vogliamo dire la nostra, ragioniamo solo per associazioni bizzarre, ma in fondo comode: non richiedono sforzi conoscitivi, insomma: multinazionale, multinazionale. Sempre Berardinelli (siamo un popolosi di esteti incapaci di introspezione) “ogni volta che apriamo la bocca facciamo una gran fatica a capire se diciamo il vero o il falso. Questa differenza, fondamentale per le altre culture, per noi è oscura, fastidiosa, trascurabile”.
Il vecchio e utile proposito di Socrate, espresso nel Protagora, c’ha detto addio. Caro Protagora, come parli bene, mi affascini tanto, però, ora, se tu vuoi che io ragioni insieme a te, mi devi fare un piacere: frasi brevi e concise, cerca di definire bene l’oggetto di cui parli, altrimenti la tua bella arte oratoria mi confonde. Mi emoziono sì, ma non penso. Socrate si proponeva di usare quegli strumenti conoscitivi grazie ai quali possiamo dare valore a un bene e dunque fare delle differenze. Come facciamo a capire se un bene è utile o no, se non lo compariamo a un altro? e come facciamo a capire il valore di quel bene se non ci diamo da fare per descrivere con correttezza metodologica quel bene stesso? Procedimento faticoso, mi rendo conto, analizza, compara, studia, integra, correggi, e così rischi anche: la tua identità, quella fissa, definita e immutabile, viene meno.
Ci mettiamo paura: qua finisce che perdiamo potere. Meglio fare associazioni di stampo medievale, alchemiche, una rosa non è più una rosa ma richiama altro. E via con le fallacie argomentative (il filosofo Habermas ne è un esempio), lo spregiudicato uso di categorie scomparse da millenni (perlomeno dalla nascita dell’agricoltura) come quelle di naturale (portatrice di diritti inviolabili e sani) e artificiale (portatrice di corruzione sulla natura). La natura ci ha detto addio tanto tempo fa, ora tutto è cultura. E vogliamo parlare dell’ancora più spregiudicato uso di paragoni estremi “l’aborto è peggio della bomba atomica” (Leandro Aletti, primario reparto ostetricia e ginecologia di Melzo, Milano), le estese chiamate in correità per cui si richiede l’obiezione dei portantini che trasportano la paziente, e magari dovrebbe praticare obiezione di coscienza anche l’autista che ha trasportato in ospedale la paziente e così via. Un procedimento invasivo, che non marca i confini e definisce diritti, caso per caso, ma trascina egoisticamente tutto con sé, appiattisce ogni cosa, e i singoli beni perdono valore e con essi il processo conoscitivo si spegne.
Si scopre un’altra cosa: che ci piace il dolore, soprattutto quello degli altri. Niente farmaci sedativi per chi abortisce. Capita, racconta la Lalli.”c’è dolore e dolore, uno legittimo e uno illegittimo che non merita sedazione. Considerando che in Italia il dolore è ancora troppo spesso vissuto come un sopportabile effetto collaterale e non come un sintomo da trattare, è abbastanza verosimile che se a questo si aggiunge la convinzione che quel dolore te lo sei cercato (abortendo) e te lo meriti (abortendo), la conclusione è che te lo tieni”.
Insomma, vogliamo soffrire perché crediamo che sia una via privilegiata per raggiungere Dio? Sul piano personale, niente da dire. Ma in ambito clinico? Che valore può avere la sofferenza? È un’indicazione per noi stessi e per il medico, c’è qualcosa che non va. Dopo la fase iniziale, meglio spegnerla.
A me qualche volta è capitato. In convegni, interviste, conferenze, qualcuno mi ha chiesto: ma che pensa di questo paese? Non c’è dubbio che la tentazione di dire multinazionale, e guadagnarmi l’applauso è molto forte, così come è forte l’altra tentazione, mettere in risalto solo ciò che nell’avversario è spiacevole e ridicolo. Ma se ci riflettiamo un attimo, o se siamo onesti con noi stessi, bene, in questi casi, dobbiamo riconoscere che abbiamo perso un metodo. La perdita riguarda tutti, è diffusa e omogenea, chi più chi meno, commette errori in tal senso. Lo possiamo notare di mattina leggendo il giornale che ci piace, quindi, immaginiamo cosa proviamo quando leggiamo quello che non ci piace.
Abbiamo perso, nella fattispecie, il metodo scientifico, quell’insieme di procedure che ci permette di effettuare delle misurazioni. Le misure non sono verità acquisite, valide una volta per tutte, come possono pensare coloro che guardano con sospetto la scienza. Al contrario, sono, momentanee, delimitazioni di insiemi. È mezzo vuoto o mezzo pieno il bicchiere? Possiamo avventurarci e discettare sul nostro stato d’animo, pessimista o ottimista, o misurare in centilitri il volume d’acqua. Sono anche, le misure, ipotesi probabilistiche. Al 90% è pieno. Questo possiamo fare, grazie la metodo, poi tocca a noi, prenderci una responsabilità, accettare il rischio, gestirlo, darsi da fare con le successive modifiche e integrazioni. Tutto qui. Ma i vantaggi sono enormi, e lo sono per tutti.
È ora di farla finita con la democrazia, disse Carmelo Bene, nell’uno contro tutti, al Costanzo show, poi precisò (ma non tanto), democrazia, intesa come demagogia. Forse è questo il punto, bisogna avere il coraggio di non ammettere nella discussione pubblica credenze non supportate da dati ottenuti con una metodologia scientifica. Come scrisse Cechov in una lettera: “le scienze mediche mi hanno sempre aiutato, e qualora non avevo dati in tal senso ho preferito non scrivere affatto”. Ecco non scrivere affatto, non barattare la libertà di pensare quello che si vuole con l’equivalenza di tutte le opinioni: esistono opinioni più forti, perché ottenute con argomentazioni e ragionamenti non fallaci e supportate da dati. Solo su queste opinioni si possono costruire leggi solide e legittime. Abbiamo fatto tanto per superare le credenze: “la terra non è piatta, l’HIV non è una punizione divina, e i terremoti non sono causati dai comportamenti lascivi delle donne” .