Nella notte
Non so la vostra, ma la mia insonnia (in genere dalle due alle tre ore di veglia a notte) porta a galla una serie di pensieri diversissimi tra loro ma con lo stesso grado di importanza. Una sorta di intasamento democratico, in ragione del quale, che so, il problema del riscaldamento globale assume lo stesso valore del problema di un bottone staccatosi il giorno prima dal mio pantalone. Quindi, prima penso all’anidride carbonica che in realtà non è tossica, o almeno lo è in concentrazioni superiori al 5%, ora siamo allo 0,038%, ossia 380 parti per milione, ossia 380 grammi di CO2 per una tonnellata d’aria e ragiono, per esempio sul fatto che prima della rivoluzione industriale, prima del 1750, questa concentrazione si attestava sugli 0,030. Però di contro, andando indietro, è anche vero che nel 1600 la Terra aveva 500 milioni di abitanti e concentrazioni di CO2 di 0,027: ora stiamo raggiungendo i sette miliardi, quindi questo potrebbe voler dire che se la popolazione si è moltiplicata per 12 (durante la notte le moltiplicazioni mi vengono bene), il tasso di CO2 si è moltiplicato solo dello 0,4: insomma siamo bestie in terra, come dicono i Litfiba, però più bravi a produrre persone che gas serra. Ma sulla terra, la canzone intendo, la canta meglio Piero Pelù o Ginevra Di Marco? Questo è un pensiero di raccordo, perché, sempre a causa dell’insonnia democratica, il problema del riscaldamento globale cede il posto a quello del bottone del pantalone, che mi serve, ma forse riesco a rimediare coprendolo con la cinta.
I pensieri salgono tutti a galla, hanno lo stesso volume, dunque galleggiano con spinta uguale, e c’è di più, provengono da abissi bui e lontani. Una notte mi è venuta a mente una ragazza con la quale avevo avuto una storia di 36 ore – nemmeno mi ricordo il nome – bene, lei mi aveva detto una cosa, tipo: a te non piace il caffé, fai solo finta che ti piaccia. E io ho pensato questa è pazza, sono drogato di caffé, adesso le scrivo una mail, mi alzo, trovo l’indirizzo e le scrivo. Eppure questa ragazza mi è tornata in mente così, all’improvviso, e con lei, e questo è l’evento ancora più assurdo, il problema dell’amore, nel suo complesso dico, da Platone a Darwin, però tutto questo si è dissolto all’improvviso e sono entrato in tensione per un’offerta di Infostrada che non avevo accettato. Brutta cosa l’insonnia e brutta cosa la democrazia dei pensieri. Ho imparato a fare anche un giochetto, quando i pensieri mi ossessionano troppo: aspetto che passi una macchina (su via di Donna Olimpia passano sempre), e sull’effetto doppler cambio pagina, e cambio pensieri. La soddisfazione che provo di mattina, quando suona la sveglia, alle 5.55, mi alzo e preparo il caffé: ma come non mi piace il caffè? ma che dice quella? E guardo prima pagina su Canale 5. Non che trovi soddisfacente il rullo prima pagina, non è quello: è l’ordine, prima le notizie politiche, poi cronaca, sport, rassegna stampa, viabilità e meteo, così anche i miei pensieri si aggiustano, i volumi cambiano.
Poi la luce del giorno, il lavoro, la bicicletta (la rubano? non la rubano?), i figli, moglie, famiglia. Tutto si aggiusta. Però, all’improvviso, penso: ma la scrittura? Faccio lo scrittore, anche se non scrivo un romanzo da 6 anni, credo, (solo saggi narrativi e piccoli saggi) e quindi sono, dovrei essere, interessato alla mente, al cervello, al suo funzionamento. Come faccio a non considerare i pensieri che mi vengono in mente durante l’insonnia? Anche se sono lontani nel tempo, sono diversi su più fronti, hanno più o meno valore, quei pensieri sono i pensieri complessi di un uomo moderno. Ho più pensieri rispetto a mio padre, e mio padre aveva più pensieri rispetto a mio nonno. Fa parte del ruolo sociale, della società che via via è sempre più dinamica. E lo scrittore? Che fa? Voglio dire, ci sarà un nesso tra il riscaldamento globale e il bottone che mi si è staccato? Non può essere solo un prodotto dell’insonnia. Quei pensieri notturni accavallati e assurdi sono un segno della mia complessità di uomo moderno (complessità, insomma, facciamo a capirci…), come li metto in scena, come li ordino? Un personaggio moderno – di un romanzo, di un racconto – per forza ha gli stessi miei pensieri notturni, i gesti che compio durante il giorno, che so, anche parlare del riscaldamento globale, la mia interpretazione del fenomeno, le mie considerazioni, il mio interesse, deve provenire da lontano, dal buio della notte, e magari si appoggia a un fatto che di scientifico non ha niente, magari un accidente che mi ha orientato verso un punto ben preciso e ora, io, come scrittore, devo risalire la filiera, cercare la matrice.
Ma c’è la matrice? C’è o non c’è, il fatto è che la narrazione di questo percorso non è lineare, è sbilenca, atemporale, e però, le narrazioni che piacciono alla gente che piace sono quelle lineari, consolanti, ma quelle sono irreali, perché la realtà non è lineare. La realtà è un’insonnia. Ci difendiamo quindi? Ci difendiamo dalla nostra stessa mente, dall’associazione dei pensieri? Dalla conoscenza? Oppure, al contrario, siamo troppo consapevoli di questa complessità e non riusciamo più a raggiungere quella incredibile semplicità di cui parlava Pasternak nella poesia le Onde. Sappiamo tutto, ma non possiamo nulla, i pensieri si equivalgono e ci bloccano. Come funziona la mente? E soprattutto, questo romanzo come lo devo scrivere? – e scrivi una bella storia, mi dicono in tanti, hai delle cose da dire? E falle dire al personaggio. Hanno pure ragione, ma ho un blocco, un blocco da insonnia.
Naturalmente se qualcuno ha un’idea in proposito, sul romanzo (ma anche sull’insonnia) si faccia avanti, dai, evviva! Per il momento, visto che l’insonnia non passa – va bene, ci sono le medicine, ma non prendo niente – per cercare di capire qualcosa in più sul flusso dei pensieri e sul mio affollamento democratico, condominiale notturno, ho cominciato a interessarmi alla neuroscienza. È una disciplina giovane, estremamente interessante. Voglio dire, non risolve né il problema del mio blocco creativo, tantomeno l’insonnia, però è uno strumento innovativo per capire come funziona la mente, gli scrittori dovrebbero frequentarla (o forse no?). La prima cosa che si scopre è che le neuroscienze sono una disciplina laica. Nel senso, abbiamo la certezza che non esiste la coscienza, almeno non come la intendiamo noi: un luogo che ospita l’anima, la verità, la spiritualità, l’essenza, ecc. Quella che chiamiamo coscienza è un insieme di funzioni, evolutesi nei millenni che, a volte (perché non è scontato), riescono a trovare un modo per stare insieme e funzionare. Miliardi di sinapsi e svariate aree celebrali, ognuna con una propria funzione, solo connessioni, niente unità, visione morale, etica, niente libero arbitrio, perché non è nemmeno certo che quando agiamo siamo coscienti di farlo.
Esperimento: dovete alzare il dito medio, scegliete voi quale il destro o il sinistro, a piacere. Lo alzo e dico: sono io che ho scelto. Sicuro? Haynes, un neuroscienziato, ha usato la risonanza magnetica funzionale, una macchina che fotografa l’attività elettrica del cervello. Bene, chiediamo a delle persone di premere un bottone, a destra o a sinistra. Se osserviamo l’attività celebrale vediamo che questa precede (cioè si illumina) molto prima del reale movimento (l’atto di premere il bottone), a volte anche di dieci secondi, un tempo enorme, considerato le velocità millesimali di scambi tra i neuroni. Ciò vuol dire che io osservatore (che guardo la risonanza celebrale) posso prevedere il movimento che la persona sta per fare. Lei non sa ancora: bottone destro o sinistro? Io lo so, prima che accada. Pensiamo di scegliere, ma in realtà non scegliamo nulla. Dunque quel gesto è il prodotto di eventi biochimici precedenti all’atto, e come suggeriva Spinoza: la complessità del nostro cervello è molto grande, se potessimo sapere in dettaglio il funzionamento, vedremmo che prima della libera scelta, era già in corso una catena di eventi fisici, la cui concatenazione poteva avere solo quell’esito: siamo determinati da eventi precedenti? E la mia insonnia? Ma insomma, noi scrittori che facciamo? Sì, va bene, creiamo mondi, usiamo l’immaginazione, la libertà, la creatività, ma qui funziona quel meccanismo che l’insonnia (almeno la mia) rende palese, una serie di pensieri, solo apparentemente slegati che invece si uniscono per orientare le nostre scelte: eventi biochimici scatenati da chissà quali fatti passati che si uniscono e ci forniscono una sorta di un effetto psicologico: quello di pensare che abbiamo scelto.
Il libro di Semir Zeki, Splendori e miserie del cervello (Codice Edizioni) porta avanti una serie di argomentazioni, che, è bene dirlo, fanno fuori una buona quantità di filosofi e ne salvano una decina. Esistono due tipi di concetti, quelli ereditari e quelli acquisiti. I concetti sono degli schemi preformati attraverso i quali osserviamo il mondo. La sensazione esterna, la percezione, non è tale se non è letta da un concetto preformato. Quelli ereditari non sono modificabili, ce li passiamo da generazioni a generazioni. Per esempio i colori. Sappiamo che il colore non è una qualità in sé. È un effetto della lunghezza d’onda riflessa dall’oggetto. Ebbene, è provato che le foglie sotto una particolare luce, quella mattutina o al tramonto, non sono verdi, ma rosse, in quanto riflettono una lunghezza d’onda lunga (appunto rossa). A volte, come in particolari condizioni atmosferiche prevalgono le lunghezze d’onda corte (blu). Ma il nostro cervello ci impedisce di vedere le foglie rosse o blu. Perché? Perché si è evoluto in modo da eliminare le ambiguità. I nostri antenati associavano il verde alle foglie, le foglie all’albero, l’albero al frutto. Le foglie sono verdi per la maggior parte del giorno, quindi il cervello elimina le ambiguità, niente foglie rosse, evitiamo la confusione. Questo è un concetto ereditario e non può essere modificato.
L’altro concetto ereditario riguarda l’amore e la bellezza. Qui Zeki ragiona esaminando non esperimenti oggettivi ma la letteratura d’amore prodotta da millenni in tutto il mondo – ma ci sono esperimenti comparativi (fantastici) con alcuni animali che rafforzano il ragionamento di Zeki. Il nostro concetto d’amore ereditario predilige l’idea dell’assoluto e dell’unione stabile e duratura. Non possiamo farci niente, è un concetto ereditario, non modificabile, ogni volta che ci innamoriamo desideriamo un rapporto assoluto (anche con quella ragazza con cui sono stato 36 ore). Un lascito dell’evoluzione: se dobbiamo moltiplicare la specie e crescere, è bene avere quantomeno la sensazione che io e te, staremo tutta la vita insieme. Un momento, è un concetto che subisce la pressione della vita. Scopriamo ben presto che di assoluto nei rapporti d’amore c’è poco e siamo delusi. Zeki arriva a dichiarare che la creazione artistica (esamina perlopiù Michelangelo) altro non è che un prodotto della frustrazione: la delusione esige una creazione compensativa. Da qui parte un discorso molto serio sulla religione. Magari ci penso stanotte. Vado a farmi un caffè che mi piace tanto. Mi piace! Mi piace? Che ne so? Magari ha ragione quella ragazza (ma come si chiamava?), magari penso che mi piaccia, e invece non mi piace. Ah, se ci fosse uno scrittore che esaminasse questi temi: io c’ho il blocco, mannaggia.